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venerdì 27 giugno 2008
I RACCONTI DI KARIN

mercoledì 21 maggio 2008
MILENA (di Giuseppe Gatto)

“Non c’èee nieeen-teee, che siaaaa per seeem-preeee, è troooppo ormai che staiii cosi male, il tuo diploma è un fallimento è una laurea per reagiiireeee”.
La voce roca e sensuale di Manuel Agnelli si diffonde dallo stereo con il volume a palla. Sono le tre di notte. I vicini non dicono nulla. Forse si sono rassegnati. Oppure la casa è insonorizzata davvero bene.
Fuori piove. Sono seduto in poltrona, in mutande e maglietta, con lo sguardo concentratissimo sul nulla. Il Jack Daniels è finito da un pezzo ma stringo ancora la bottiglia nella mano destra.
Quasi fosse la boa che mi tiene a galla.
Sento musica e pioggia entrambe in versione molto ovattata. La punta di un trapano mi passa le tempie da parte a parte. Devo aver bevuto troppo.
Ormai sono passate diverse ore che Milena è uscita da quella porta, sbattendosela forte alle spalle e trascinando una grossa valigia. Da un momento all’altro ricompare e facciamo pace…
- “Sei sempre il solito stronzo, non te ne frega nulla di me, non te ne è mai fregato!”
- “ma amore, cosa stai dicendo? Cosa ho fatto?”
- “lo sai benissimo cosa hai fatto” stava urlando, come al solito,
- “calmati, prova a spiegarmelo, ti giuro che non ci sto capendo nulla. E smettila di urlare”
- “urlo quando mi pare cazzo, URLO QUANDO MI PARE VABBENE!”
Urlava veramente come e quando gli pareva. Milena era bravissima ad urlare. Una professionista. Quando le cose andavano bene era la persona migliore che conoscessi, dolce, sorridente, un angelo con lo sguardo da sirena… Bella, radiosa, di un fascino etereo, quasi evanescente. Ma quando si arrabbiava sembrava posseduta dal demonio. La bava alla bocca, gli occhi iniettati di sangue, lo sguardo di una tigre ferita… e cominciava ad urlare, urlare, urlare.
Dio che mal di testa. Devo ricordarmi di comprare un altro Jack. Cerco le ultime gocce ma la bottiglia a base quadrata è completamente secca.
Di solito sta via un’ora o due, poi smaltisce la crisi isterica e ritorna. Ci abbracciamo. A volte facciamo l’amore senza dire nulla. A volte lo facciamo piangendo.
- “Non lo capisci che non mi sento amata, stronzo! Che vorrei di più da te. Che ti vorrei diverso!”
Avevo smesso di risponderle. Non ho più fiato, non ho più parole. Non ho più energia. Sono ormai quasi due anni che mi ripete le stesse cose come un disco rotto. Però la valigia non l’aveva mai fatta. Ma lo so. Poi le passa. Fra un po’ torna.
- “Basta! Sei un pezzo di merda, mi fai schifo, MI FAI SCHIIIFOOOO!”
- “Ti prego, calmati, sei fuori di te”
- “sono CALMISSIMA” urlava. Quando arrivava a quello stadio di urla e insulti non era calma proprio per niente!
Ha buttato in terra un vaso, che incredibilmente non si è rotto! Poi si è chiusa in camera. Ne è uscita piangendo dopo venti minuti con la valigia. Un ultimo vaffanculo urlatomi in faccia a pieni polmoni e poi sbam è sparita dietro la porta.
Ma come siamo potuti arrivare a questo?
Guardo attraverso la finestra: le gocce di pioggia, il buio, qualche luce nella collina di fronte e mi addormento.
Alle sei di mattina ho un sussulto. La poltrona è scomodissima. Dio che male al collo. Ho dormito qualche ora e incredibilmente stringo ancora a me come un bambino in grembo la bottiglia vuota. La guardo speranzoso ma è ancora vuota. Fuori non ha smesso di piovere. Mi guardo intorno sperando di vederla ma in casa non c’è nessuno, oltre a me. Mi viene da pisciare. Vado in bagno, passando vicino al tavolo raccolgo il vaso. Lo tocco con le nocche del pugno ton – ton… ecco perché non si è rotto, è di metallo, avrei giurato fosse di ceramica, ... mi sembrava strano!
Espleto i bisogni fisiologici, ho un bruciore allo stomaco che sembra una fissione nucleare. Il mio sguardo si sofferma sullo specchio. Non sono un bello spettacolo, eppure a Milena piaccio, che gusti... è che non gli piaccio più dentro. Vuole di più, mi vuole diverso. Dovrei decidermi a crescere… Ma se solo capissi per davvero cosa diavolo vuole. Crescere, cambiare, diverso. Si, ma cambiare cosa? Diverso come?
Altra stilettata di acido alla bocca dello stomaco. Come un pugno liquido.
Devo aver bevuto proprio troppo. Devo mangiare qualcosa. E anche comprare un’altra bottiglia di distillato di cereali invecchiato in botte. Cerco le calze sul pavimento, prendo la camicia sul divano, test olfattivo discreto, la indosso. Il pantalone dove l’ho messo? Ah, eccolo. Faccio un salto giù al bar. Guardo l’orologio al muro, sono passate da poco le sette.
Fuori c’è un odore di strada e prato bagnato, il profumo di quando smette di piovere. Infatti ha smesso e sta tornando il sereno . Magari è un buon segno. Bello quest’odore, tiro dentro l’aria dal naso con un profondo respiro, chiudo gli occhi. Li riapro che mi gira la testa, ho inspirato troppo ossigeno tutto insieme!
- “Ciao Marco, Buongiorno. Ti sei alzato presto stamattina!”
- “Si, certo, ora vado anche a fare un po’ di footing. … Fammi un cappuccio, và… e dammi anche due brioche, chissà mi passa stò bruciore. Ah, … e non dire stronzate di prima mattina che lo sai che non riesco a reagire. Ce l’hai una bottiglia di Jack Daniels?”
- “quante ne vuoi”
- “per ora ne basta una…”
Compro anche il quotidiano e torno su nel nido.
Milena non è tornata.
Vinco l’orgoglio e provo a chiamarla, non è mai stata via così a lungo. Il telefono è staccato. Riprovo. Niente.
Apro la bottiglia e mi butto in gola un’abbondante sorsata che mi infiamma il petto. Sollievo.
Comincia a mancarmi. Più passa la sbornia e più mi manca. Il suo corpo, il suo profumo, la sua voce, l’angolo del suo viso, fra il naso e la fronte, quando mi si appoggia sul petto e nell’incavo del mio collo, la sua posizione preferita per dormire.
Il sole compare all’improvviso, fortissimo, sembra esplodere. Una lama di luce entra nel soggiorno. Dio la testa. Devo dormire, vado in camera, il letto è ancora sfatto è il suo odore è ancora lì che galleggia a mezz’aria. Mentre alzo le lenzuola e mi sfilo i pantaloni vedo sul comodino il foglio piegato. Una lettera. Mi ha scritto una lettera! E’ piegata in due, la prendo e la apro.
Un brivido ghiacciato mi entra da non so dove alla base della nuca, scende giù per la schiena e mi piega le gambe, come una frustata. Cado seduto sul bordo del letto e rileggo di nuovo quelle poche righe.
E piango. Finalmente piango. Con la testa fra le mani. Inebetito.
Milena non tornerà più.
di Giuseppe Gatto
domenica 20 aprile 2008
SPALLATA MUSCOLARE (di Giuseppe Gatto)

C’eravamo tutti: Batman in porta, Andrea, Pasquale, Elio e gli altri. Amici estivi provenienti da varie città. Ci eravamo iscritti con il nome di “Brasato&Polenta” per via che due del gruppo, della provincia di Bergamo, al pranzo di ferragosto avevano preparato per l’appunto un pentolone di brasato con polenta cotta nel paiolo di rame. Il tutto annaffiato da grandi quantità di Vin brulè. Mentre fuori c’erano 40 gradi all’ombra. Però era stata una giornata magnifica!
La squadra avversaria era invece una granitica compagine locale. Ragazzi dai fisici forti, temprati dal lavoro nei campi, nell’edilizia abusiva e nelle risse da strada. Avevano anche lo straniero: il portiere napoletano. Ci trovavamo sulla costa ionica calabrese. Noi con la maglietta giallo senape e loro a righe orizzontali bianche e verdi che li faceva sembrare una squadra di rugby.
Eravamo pronti e stavamo scambiando qualche palleggio di riscaldamento. Eravamo già sudati.
“Oh, ma l’hai visto a quello?” mi disse Andrea indicandomi con un impercettibile movimento degli occhi un energumeno che stava entrando in campo. Mi girai e vidi un orco del “Signore degli anelli”, alto almeno un metro e novanta, largo come un frigorifero, con la maglietta enorme che gli aderiva come un body da danza, completamente privo di collo, con la testa attaccata direttamente sul tronco.
Brutto da incutere timore. Occhi piccoli e sguardo cattivo, naso enorme e bitorzoluto, bocca da maiale, pelle butterata e capelli ispidi che gli partivano appena un centimetro sopra le sopracciglia.
“Minchia” risposi “se uno così lo incontri per strada alzi le mani e gli dai il portafoglio! Chissà se gioca avanti o dietro”
“Quello dove gioca gioca fà danni, te lo dico io! Speriamo bene!” disse Andrea e fece un impercettibile segno della croce.
Anche gli altri non scherzavano. Fisicamente ci sovrastavano. Per fortuna sul tocco di palla eravamo in vantaggio: Pasquale ed Elio con la palla fra i piedi sembravano ispirati da un’entità soprannaturale. Era un piacere vederli correre per il campo con la sfera incollata al piede. Io non giocavo un granché bene ma ero veloce, scattavo in avanti in attesa dei passaggi dei miei due compagni e cercavo di buttarla dentro, un po’ alla Ciccio Graziani. Una volta raccolsi la palla dal nostro portiere la lanciai sulla destra, il mio compagno fece velocemente tutto il campo lungo la fascia laterale, crossò al centro ed io ero lì a colpirla di testa. Lui si voltò verso la nostra area per capire chi gli avesse passato la palla. Ero velocissimo.
Fischio d’inizio. Era un torneo serio: c’era persino l’arbitro! Ed una sparuta tifoseria costituita per lo più da familiari ed amici dei giocatori oltre ai soliti curiosi.
Capimmo subito che sarebbe stato un tardo pomeriggio lunghissimo. La metà dei giocatori in campo correva dietro la palla senza costrutto e sollevando un’inverosimile quantità di terra e polvere. A tratti non si vedeva nulla. Dopo i primi contrasti capimmo anche che era meglio adottare una strategia conservativa. Gli avversari erano scarsi nel tocco di palla ma ben più preparati nel tocco di caviglie e gambe. Una squadra di picchiatori assassini.
Pasquale prese palla ne fece fuori un paio in dribbling riuscì a crossare un pallone sul quale c’era scritto – spingere in porta, grazie – feci solo tre passi, veloci, incornai il cuoio, papera del portiere che uscì a raccogliere farfalle e uno a zero per noi.
Palla al centro e sedici occhi avvelenati si posarono su di me. Mi vedevo già sulla barella dell’ambulanza. Uno bravo lo avevano anche gli avversari: tale Mimmo, conquistò la palla, fece qualche lunga falcata e tirò un missile terra-aria in direzione di Batman. Solo che lo chiamavamo Batman mica per niente: volò da un palo all’altro come un vero supereroe e saldò la palla nella morsa delle sue grandi manone.
“Un ce tirate e luntano che è lùangu e i pìglia tutte!” disse ai suoi l’orco e udimmo per la prima volta la sua voce, che sembrava provenire dagli inferi.
Di nuovo noi all’attacco, Pasquale si involò sulla fascia. Questa volta però l’orco aveva capito e gli corse incontro come il rinoceronte in “Pomi-d’Ottone-e-manici-di-scopa”. Da un lato del campetto c’era una rete metallica, a due metri dalla linea di fallo laterale. Pasquale venne spalmato sopra la rete dal corpo dell’energumeno come fosse una pelle di daino e si afflosciò come un palloncino bucato. Lo aveva caricato in modo fallosissimo, come si fa a hockey, ma lì ci sono casco e protezioni!
Lungo fischio dell’arbitro.
“Spallàt' muscolare!” grido l’orco.
“Stai zitto che ti sbatto fuori, non sei a un incontro di wrestiling! ... Te la do io la spallata muscolare!” ebbe il coraggio di sibilargli a denti stretti l’arbitro! Pasquale si riprese ma da quel momento giocò e attaccò con molta meno veemenza. Avevamo tutti paura di finire nella sala gessi dell’ospedale del paese più vicino. Quando li vedevamo arrivare era naturale tirare un pelo indietro la caviglia o l’intera gamba a seconda dei casi...
Fu così che nonostante la grande prestazione di giornata del nostro dinoccolato portierone paratutto finimmo il primo tempo sotto di due a uno.
Nell’intervallo vidi che i Kaimani, così si chiamava l’altra squadra, avevano fatto capannello e guardavano nella mia direzione, stavano dicendo qualcosa all’orco e guardavano proprio me. E quello annuiva.
Deglutii saliva e polvere.
Fischio d’inizio del secondo tempo. Palla a Pasquale che finse l’affondo, tutti addosso a lui, cambiò gioco e con un lungo lancio liberò dall’altra parte Elio, che andò giù di taglio e mi passò un’altro pallone che era più difficile buttare fuori che dentro. Io, che avevo mezzo capito tutto, mi ero fiondato al centro ed avevo fatto da sponda quasi passiva: il pallone mi era rimbalzato addosso ed era finito in porta. Due a due. Ma dovevamo anche dire grazie al portiere che era veramente una cosa inutile, sembrava stesse facendo riscaldamento per un’esibizione di danza artistica tanto si sbracciava in modo sguaiato. La nostra tifoseria cominciò a ridere ed a prenderlo moderatamente per il culo, la tifoseria dei Kaimani cominciò a rumoreggiare.
Io mi sentivo sempre gli occhi dell’orco puntati addosso.
A metà del secondo tempo scoccò una scintilla che poteva diventare un’esplosione. La palla finì a fondo campo, dalla parte loro, in quel lato del campo non c’era la rete, c’era una corda a mezzo metro da terra che delimitava la zona di gioco, poco dopo c’era un piccolo dislivello e quindi i campi coltivati in piena irrigazione. Il loro portiere andò a prendere la palla trotterallando atleticamente, arrivò alla corda, fece per saltarla ma incespicò con il piede davanti e fini lungo la discesina, direttamente con la faccia nel fango. Sembrava fosse scomparso di colpo come caduto in una botola! Scoppiò il boato di una risata, in campo e fuori. Apriti cielo. I familiari del portiere minchione cominciarono una sceneggiata alla Mario Merola
“Uèeee ma comm’ ve permittite, chèllo o guagliòne s’è fatto male e vùie rirète?”, “Ma io vi accìro, vi accìiiro!” il papà, i fratelli, gli zii dell’imbecille si lanciarono all’attacco dei nostri amici che stavano ancora ridendo.
“Ma non si è fatto niente!” diceva qualcuno.
La mamma, le sorelle, le zie urlavano:
“U mammamìa!”, “Maròoonna”, “AAAaaah!!!” mentre tenevano e tiravano per le magliette e le braccia i loro uomini e si dimenavano come impazzite. Era tutta una farsa ma di grande impatto scenico. Si creò una straordinaria confusione a bordo campo: nuvole di polvere, urla, qualche ceffone. Intanto lo scemo si era rialzato, dipinto di terra e fango ma assolutamente incolume. Questo aiutò a sedare gli animi.
Anche i Kaimani fecero da pacieri, il tuffo a volo d’angelo del portiere aveva fatto ridere anche loro. Aveva divertito tutti tranne ovviamente i familiari stretti, era stata una scena magnifica, resa ancora più buffa dall’atteggiamento di ostentata sicurezza del deficiente!
Dopo dieci minuti di tumulto e principi di tafferuglio era tornato il sereno.
La partita proseguì con un forte stato di tensione e finì tre a tre. Andava benissimo. Eravamo tutti sani e salvi a parte Pasquale che aveva preso più botte di tutti ed era ancora un po’ intontito dalla spallata muscolare.
Tre o quattro di loro, orco incluso, si avvicinarono a me, mi arrivarono di fronte. Mi sentii tremare le gambe. L’orco mi disse:
“Sei tu Piero?”
deglutii un’altra dose di terra e saliva.
“Si” risposi
“Stasera fatti trovare in piazzetta”
Si voltarono e se ne andarono. I miei compagni si avvicinarono:
“Che ti hanno detto?”
“Che stasera mi uccidono”
“Che?”
“Mi hanno gentilmente dato appuntamento stasera in piazzetta. Me lo ha detto proprio l’armadio butterato puntandomi il dito contro!”
“Minchia!”
“Io stasera sto bello tappato in casa!” dissi
“secondo me è peggio, quelli poi ti vengono a cercare. Stai tranquillo, stasera in piazzetta ci siamo tutti” disse Pasquale
“Piero, siamo tutti con te, come i moschettieri” intervenne Andrea
“Si, moschettieri stò cazzo, voglio vedere come scappate tutti al primo ceffone” dissi io
Si stava facendo buio. Eravamo rimasti solo noi, sudati, sporchi, ancora con le magliette addosso, che ci guardavamo in faccia, soprattutto loro guardavano me e ci si chiedeva l’un l’altro con gli occhi – allora che si fa? –
“Non posso scappare davanti a ‘sti stronzi. Io stasera vado in piazzetta, come tutte le sere... e poi vediamo” feci risoluto
“Ci vediamo lì dopo cena, tutti, ok?” disse Elio.
“Tutti. Non ti molliamo Piero” fecero quasi in coro
Che poi perchè ce l’avevano proprio con me? Era dall’inizio della partita che mi guardavano, confabulavano, mi indicavano... porca puttana, ... ma tu guarda che cazzo mi doveva capitare...
A casa, doccia veloce e a tavola per la cena.
“Piero ma non mangi nulla!”
“Mamma, ho appena finito di giocare, non ho fame” mentii.
Avevo lo stomaco annodato. Alle dieci e mezza inforcai Attilio, il mio Cagiva 125 e andai in piazzetta. C’erano tutti: Batman, Pasquale, Andrea, Elio ed altri amici ai quali era giunta voce della cosa: Claudio, Riccardo, Lorenzo. Non ci scambiammo una sola parola. Ci guardammo in faccia e con gesti della testa ci dicemmo:
– si sono visti? –
– no, ancora no –
La piazzetta era il luogo di ritrovo estivo di tutto quel piccolo angolo di mondo. La sera tutta un’allegra gioventù si riversava fra le aiuole e i tavolini dei numerosi bar, gelaterie e pizzerie al taglio. Era una piazza di forma quadrata, alquanto grande, chiusa al traffico e brulicava di gente, famiglie, passeggini, ragazze e ragazzi in piena tempesta ormonale.
Lorenzo ruppe il ghiaccio:
“Allora oggi com’è andata?”
“Abbiamo pareggiato” disse Elio “ma per come abbiamo rischiato le tibie è andata pure bene”
Intervenne Batman “ragà scusatemi, io ne ho parate diverse ma quelli entravano a gamba tesa, l’arbitro non fischiava...”
“Ma scherzi!? Non ti preoccupare, sei stato una diga, come sempre, se non c’eri tu finiva dieci a tre per loro...” fece Andrea
“Eccoli” disse Riccardo
Dal fondo di una delle strade che si immettevano sulla piazzetta stavano arrivando, al gran completo. Il frigorifero al centro ed intorno tutta la squadra con altri amici, erano almeno una decina. Ci potevano ridurre in poltiglia con una mano sola. L’orco aveva cambiato body, adesso indossava una Lacoste ìcs-ìcs-ìcs-elle color mattone che gli aderiva come un guanto.
Arrivarono di fronte a noi. Avevamo smesso di respirare già da quando erano a cinque metri.
L’orco puntò il dito contro di me e attaccò con il suo vocione ruvido:
“Mi hann dètt' che fai dei rutti potenti. Qua non mi ha mai battùt' nessùn'. Ti devo sfidare!”
Lo guardai inebetito, mi sentii il sangue che mi si scioglieva lungo il corpo, riacquistavo calore e vita. ... Cosa aveva detto?
“Scusa, ... cosa? ... Una sfida?! ... ma...”
“Hai capìt' benìssim'. Io c’ho un nòm' da difèndr'. Non mi possono arrivàr' voci che tu fai i rutt' più fòrt' di me! Capìt'?”
Non ci potevo credere. Forse una delle sere precedenti, quando ero ubriaco uscito da una festa avevo tirato giù un do di petto di quelli tosti e qualcuno di loro mi aveva sentito...
“Ma io mi vergogno... e poi mica li faccio a comando, ... vi siete sbagliati... Guarda, sei più bravo tu... sicuramente...”
“Non ci siamo sbagliàt'” disse un altro “ti abbiàm' sentìt' due sere fa alla festa che ruggivi com' nù liòne!”
Lo sapevo cazzo, la festa, la tequila e tutto il resto...
“... vabbè...” dissi rassegnato “… e quindi?”
“Andiàm' ai tavoli del bar da Gino. Prendiamo una birra e chi perde paga da bèr’ a tùtt'... ”
Lessi chiaramente nel suo sguardo l’assenza dell’opzione – rifiuto – ed in ogni caso rispetto alla cofanata di pugni che pensavo di dover portare a casa era andata pure di lusso, avrei pagato da bere, poco male. Anzi, molto volentieri! I miei amici se lo meritavano pure, erano venuti verso il patibolo a testa alta, per starmi vicino. La tensione si stemperò, Lorenzo, Claudio, Elio, ridevano e si davano pacche sulle spalle. Avevano temuto tutti il peggio. Pericolo scampato. Andammo verso il bar. Pasquale si avvicinò e disse a bassa voce:
“Guarda che lo puoi battere!”
“Ma che stai dicendo, sei impazzito?” risposi
“Ormai siamo in ballo e balliamo!” sorrise
L’orco si era seduto a un tavolo, qualcuno aveva portato due bottiglie piccole di birra ghiacciata. Io mi accomodai di fronte a lui. Un cerchio intorno a noi. Mi sentivo tanto Silvester Stallone alla finalissima di braccio di ferro. In testa mi rimbombavano le parole di Pasquale ...
– ormai siamo in ballo... lo puoi battere –
Svuotammo ognuno la propria bottiglietta. L’orco fece un gesto cavalleresco con la mano ed il capo come per dire – comincia tu –
Avevo tracannato tutto d’un fiato la birrozza, ero a stomaco vuoto, avevo accumulato tensione per almeno quattro ore e comunque nel mio piccolo potevo vantare una discreta potenza di fuoco. Lo guardai negli occhi, ingoiai dell’altra aria, un paio di volte, poi tirai fuori il barrito dell'elefante indiano in calore. Mi sembrò che gli si mossero anche un po’ i capelli.
Si alzò in piedi di scatto, sollevò la mano e disse:
martedì 15 aprile 2008
ANNA PER SEMPRE (di G. Gatto)

Ore 09:00
- “Quando ti fai il caffè potresti pulire la macchinetta per favore?”
- “Si Anna, hai ragione, …scusa mi sono distratto … Comunque buongiorno eh!”
- “Ti distrai un po’ troppo spesso! (alza la voce) E’ che a te ti frega solo delle cose tue. Quando è stata l’ultima volta che hai portato giù la spazzatura? E la spesa? Da quando è che non fai la spesa?”
- “Senti, per favore, (allarga le braccia) non ho pulito la macchinetta del caffè (alza la voce anche lui) ma ora non attaccare la solita solfa. E’ sabato mattina. Ti prego! Ogni week end la stessa battaglia!”
- “Solo perché gli altri giorni ti vedo poco…” (voce molto avvilita)
- “Vabbè, ciao, io esco. Ci vediamo per pranzo”
- “Io vado a mangiare da mamma, vieni pure tu?”
- “No, ti prego! Dai tuoi no, ci andiamo pure domani! … Passo a prenderti dopo pranzo, andiamo a fare la spesa assieme, ok?”
- “… (lunga pausa) … si, vabbè. Ma tu ora dove vai?”
- “Non cominciare! (molto seccato) Mi vedo con Ugo, te lo avevo detto! Devo aiutarlo a montare il pergolato...”
- “Me ne ero dimenticata, scusa… (sospiro) ci vediamo verso le tre”
Ore 18:00
- “Pronto?”
- “Laura, amore, sono io”
- “Ciao anima mia. Stamattina sei stato fantastico…”
- “Laura, senti …” (lunga pausa)
- “Cosa c’è? … Ti sento strano. Tutto bene?!”
- “Anna… (pausa) Anna è morta”
- “Tua moglie?!”
- “Si, (seccato) quante Anne conosci?”
- “Oddio!!! (scoppia a piangere) L’hai, … l’hai uccisa tu?”
- “Ma che dici, sei pazza?! E’ stato un … si, un colpo di fortuna. Eravamo andati al supermercato. Un’auto l’ha investita, davanti i miei occhi. E’ morta sul colpo, non ha sofferto.”
- “Mioddio come sei cinico! (alza la voce e piange ancora più forte) Sei un mostro! Mi fai paura!”
- “Ma ora siamo liberi, capisci? Finalmente liberi! Di amarci, di essere felici, … è quello che abbiamo sempre desiderato!”
- “… Stronzo! (urla forte) Sei disgustoso! Mi fai schifo! Io desideravo che tu la lasciassi, … non che morisse!”
- “Beh, (con voce bassa e pacata) mi ha lasciato lei... Per sempre”
di Giuseppe Gatto