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martedì 1 luglio 2008

L'ALBERO DELLE MORE (di Giuseppe Gatto)


“Ma è questo?” dissi
Lei fece sì con un cenno del capo ed un lieve sorriso
“Dai, non ci posso credere! Mi prendi in giro…”
“Ma no! E’ lui!”
“Ma il nostro era … più grosso, più alto. Era enorme! E poi era in mezzo al nulla!”
“Amedeo, avevamo sei anni, ci sembrava enorme! Sono passati più di trent’anni. E’ già un miracolo che sia ancora qui, tutte queste case non c’erano. Ora sembra un bonsai!”
– Il nostro bonsai – penso, e invece dico:
“Un bonsai in mezzo al cemento”
“Arrivavamo in bicicletta, quasi tutti i pomeriggi…” riprende lei “era il nostro rifugio, salivamo su e mangiavamo tutte le more che riuscivamo a raggiungere...”
“...troppo buone! Bianche, dolcissime…”
Continuiamo a parlare e a guardare quello che era il nostro mondo. Non ci vediamo da allora. Giovanna ride, con quel suo sorriso infinito che mi metteva soggezione e mi faceva arrossire già a sei anni. Eravamo soltanto due bambini eppure io ne ero perdutamente innamorato, come solo un bambino sa esserlo. Ricordavo perfettamente la luce e l’allegria dei suoi grandi occhi verdi, le fossette sulle sue guance e quel suo modo particolare di ridere. Avevo sette anni quando la mia famiglia cambiò mare e non ci vedemmo più. Oggi sono passato per caso da queste parti e non ho potuto fare a meno di cercarla. E’ tardo pomeriggio ma il caldo è comunque da estate inoltrata. Nell’aria c’è un bell’odore di salsedine e di pietre calde. La sua casa era sempre lì, inclusi il vecchio cancello verde ed il muretto bianco. Sono rimasto immobile per dieci minuti, forse più. Poi ho preso coraggio e l’ho chiamata. Lei è uscita, con il pancione e due marmocchi stupendi attaccati alle gambe. – E’ sempre la stessa – ho pensato – il naso un po’ più importante, qualche ruga, un’aria meno spensierata, ma il sorriso dei suoi occhi e le fossette sulle guance sono proprio lì dove li avevo lasciati –
Giovanna mi ha scrutato per qualche secondo prima di inarcare le sopracciglia, esclamare il mio nome e scoppiare in un sorriso totale. Dopo il caffè di rito siamo usciti a fare una passeggiata, i suoi piccoli sono rimasti in giardino con la nonna.
“Nonna, chi è quel signore?”
“E’ Amedeo, un amichetto della mamma”
Ho notato lo sguardo furbo del maschietto che aggrottava la fronte e probabilmente faticava a catalogarmi nella categoria amichetti, viste le mie dimensioni.
Come guidati da un navigatore satellitare siamo arrivati all’albero delle more.
“Restavamo qui a giocare per ore” continuo guardando il punto dove il tronco si apre come una mano.
“Sì, quest’albero era un castello, un aereo, una nave spaziale...”
“Mah, … io soprattutto venivo per mangiare le more! E poi arrampicarmi sui rami mi faceva sentire molto Tarzan!”
Ride. Mi dà una spinta sulla spalla. Come è bella.
“Giovanna, ma tu lo avevi capito che ero innamorato di te?”
L’ho pensato a bruciapelo ma le mie labbra non si sono mosse di un millimetro.
“Come mai sei scomparso?” dice “Potevi passare a salutarci ogni tanto!”
“Il giorno che dovevo partire venni a salutarti, arrivai vicino al fiume e ti vidi giocare e scherzare con Giulio. Ero a pochi metri da voi quando tu lo hai abbracciato, quasi di scatto, e gli hai dato un lungo bacio sulla guancia, con gli occhi chiusi, lo ricordo bene. Sentii un pugno qui, alla bocca dello stomaco, una vampata di calore in viso e scappai via”
Di nuovo, le labbra non si sono mosse. Poi dico:
“Boh, eravamo bambini…” e alzo le spalle “posso?” lei fa cenno di sì e le sfioro la pancia con la mano. Da quando sono diventato anche io papà, le pance mi fanno una tenerezza infinita.
Mi prende la mano fra le sue: “mi ha fatto piacere rivederti. Ma ora devo scappare. Giurami che ripassi, magari mangiamo un boccone assieme e ci facciamo un bagno, ok?”
“Si certo. Devo andare anche io, ciao Giovanna”
“Ciao”
Il tempo si ferma. Non sento più uccellini e cicale, né il caldo sulla pelle, né la risacca in lontananza. Persino l'aria mi sembra più fredda e rarefatta.
E mi riprendo finalmente ciò che era mio. Il mio bacio sulla guancia.
Con qualche anno di ritardo.


di Giuseppe Gatto


Libera 
Università di Alcatraz