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sabato 10 aprile 2010

IL BOB A DUE (di Giuseppe Gatto)


IL BOB A DUE, ovvero "delle mamme e dei guerrieri Ninja"
Osvaldo ha i suoi tempi. Impiega un po’ per riuscire a svegliarsi, spegne la radiosveglia almeno quattro volte, magari con la scusa che sta passando un vecchio e orrendo pezzo di Dario Baldan Bembo. A volte la spegne del tutto e si riavvolge nelle coperte; si prende in giro con tormentoni del tipo “Ora conto fino a 30 poi mi alzo” e al cinque russa di nuovo. Alla fine il miracolo si compie e riesce a riaversi. Si muove lentamente verso il bagno dove espleta esclusivamente le esigenze fisiologiche primarie. Quelle in piedi. L’acqua non la tocca perché non si sente ancora pronto. Troppo umida lei e troppo caldo del letto lui. Poi sempre lentamente va verso la cucina. Viene colpito in faccia dal sole che penetra furiosamente dalle ampie vetrate del salotto, si copre gli occhi con il dorso della mano destra mentre con l’altra si gratta dolcemente in vari punti più o meno reconditi del corpo, sbadigliando rumorosamente. Arriva in cucina, riempie un bicchiere di latte, direttamente dal frigo, spezza e tuffa nel latte quattro o cinque biscotti di quelli belli cicciotti che si gonfiano senza perdere consistenza. Mette a fare il caffè. Ecco che i primi borborigmi cominciano a scuotere timidamente il basso ventre del nostro eroe. Il caffè fa il resto. Le timide scosse diventano smottamenti tellurici, la peristalsi mette il turbo e Osvaldo riesce a malapena a fiondarsi di corsa in bagno, dove finalmente si siede e lascia che la deflagrazione abbia inizio e la natura faccia il suo corso.
Questa è la principale pausa relax della sua giornata. Prende un giornale o un libro e completa la seduta con tutta calma. Finalmente può, non senza una certa riluttanza e un po’ di sgomento, passare alla fase delle abluzioni. Niente di impegnativo, per carità: le mani, una sciacquata alla faccia, i denti. Ecco.
A questo punto Osvaldo è quasi completamente sveglio. Va a vestirsi. Non trova le mutande, poi non trova i calzini, poi sbaglia la camicia, poi non trova i pantaloni. Alla fine riesce a far tutto ed è pronto e bello come il sole. O quasi. Passa davanti lo svuotatasche in salotto e parte il rito: ogni giorno dimentica qualcosa quindi è essenziale la sera lasciare tutto lì, in bella mostra, per poter poi rifare al mattino il percorso inverso nelle varie tasche di giacca e giaccone. Le chiavi di casa, le chiavi della macchina, le chiavi dell’ufficio, il telefonino, che regolarmente è con poca batteria, il portafoglio, il portamonete, alcune carte con degli appunti, le mentine per l’alito, gli occhiali da sole. Quindi la ventiquattrore nera con il pc portatile e via verso nuove avventure. Tempo necessario per tutta la procedura: da un’ora a un’ora e mezza. In casi di emergenza quali sveglia che non ha suonato perché caricata male la sera prima, sveglia che ha suonato ma è stata spenta definitivamente, sveglia che ha suonato ma i bimbi avevano abbassato il volume, appuntamenti o volo aereo al mattino presto, e facendo in ogni caso i salti mortali, i tempi possono ridursi al massimo a quarantacinque minuti.
Non un minuto di meno.

Un giorno Osvaldo comprese il significato profondo della parola “incubo”. Una tegola stava per abbattersi sulle sue tranquille e paciose pre-mattinate.
Successe che la baby sitter, una ragazza polacca giovane e avvenente, classica bellezza dell’est europeo, bionda con gli occhi azzurri, alta e snella, ma comunque molto brava anche con i bambini, ebbe un’accesa discussione con un palo della luce, per strada. Lei era sui pattini e il palo non era riuscito a evitarla. Rotula e legamenti del ginocchio sinistro andati, ne avrebbe avuto per tre mesi almeno. I nonni erano fuori città, non avevano nessun altro tipo di possibile aiuto esterno e la moglie svolgeva un lavoro importante e per il quale era costretta a uscire di casa molto presto. Entro le sette.

Normalmente alle sette e trenta arrivava la baby sitter e mentre Osvaldo circolava lentamente per casa rigorosamente in pigiama senza offendere né il comune senso del pudore né attentare alle grazie della Mary Poppins bionda, lei si occupava come una fatina di Alessandro e Paolo, quasi quattro anni il primo, uno il secondo. Li svegliava, li lavava, faceva far loro colazione, e intanto li faceva ridere, cantava loro le canzoncine. Ne posava uno e ne prendeva un altro e mentre uno giocava vestiva l’altro e poi lasciava giocare il secondo e vestiva il primo. Una Dea Kali dell’accudimento. Sempre con il sorriso sulle labbra e una pazienza da competizione. Osvaldo nella fase “svuotatasche” trovava quindi anche il marmocchio più grande perfettamente pronto, lavato, colazionato e grembiulinizzato, con addosso il cappottino blu e il cappello di lana beige, lo zainetto con la merenda in una mano e un gormita nell’altra che gli sorrideva e gli tendeva le braccine. Il moccioso, non il gormita. E lui compiva il faticoso ruolo di padre accompagnandolo, quando erano quasi le nove, all’asilo a poche centinaia di metri da casa. Poi andava al lavoro. Il piccolo Paoletto restava invece a casa con la valchiria.
Ma la vichinga ebbe appunto l’incontro ravvicinato con il palo. La ricerca di una sostituta in tempi rapidi fu vana. E poi come fai a lasciare una creatura a casa con una che non conosci bene? Se ne sentono di tutti i colori! Scattò il piano B: ricerca di un asilo nido anche per il più piccolo.

“Io ti preparo i vestitini di entrambi, tu li lavi, gli fai fare colazione, li vesti e li porti all’asilo, qual è il problema?” disse la moglie a Osvaldo.

E lui sentì distintamente il soffitto della stanza crollargli rumorosamente addosso.
“Da solo?!?”
“Non ci sono alternative caro. E poi non è mica la fine del mondo!”
“Ma potresti rimanere ancora a casa tu per un po’…”
“Non se ne parla assolutamente. Sono già stata a casa fin troppo. Tu sei il papà, te lo ricordi? Sapessi quante volte sono stata sola con tutti e due. Non è mica difficile come credi”
Infatti. Non era così difficile come lui credeva.
Era decisamente molto peggio.

La moglie era già quasi pronta quando alle sei e trenta Paoletto si svegliò, era nel lettone, e cominciò ad agitarsi come un’anguilla fuori dall’acqua. Erano già diversi giorni che il piccolo, infastidito dallo spuntare dei primi dentini, si rifiutava categoricamente di dormire nel suo lettino. Osvaldo guardò la sveglia, rischio un coccolone, poi lo abbracciò e cercò di consolarlo. Intanto sentì la porta che si chiudeva e la moglie che usciva. A ritmi alternati sonno-veglia: cinque minuti sonno, cinque minuti pianto, cinque minuti sonno, cinque minuti pianto, riuscì alla bell’e meglio a portare il piccolo fino alle sette e trenta, poi rassegnato e assonnato si alzò. Quasi nello stesso istante il più grande lanciò un urlo e scoppiò a piangere. Un brutto sogno forse. Scese dal suo lettino e andò verso il lettone dei genitori:
“Dov’è mamma?”
“E’ andata a lavorare amore, mettiti nel lettone, puoi dormire ancora un pochino. Intanto faccio mangiare Paolo”
“Dov’è Inglid?”
“Ingrid si è fatta male al ginocchio ricordi?”
Seh, buonanotte, un po’ l’assenza della mamma, un po’ quella della tata, un po’ la gelosia, il piccolo Alessandro cominciò a urlare e piangere come una vite tagliata che voleva la mamma e non voleva dormire … e così facendo per fortuna si riaddormentò. Osvaldo tirò un sospiro di sollievo e andò in cucina, sempre con il piccolo in braccio. Con una mano sola riuscì a bere un po’ di latte, senza i soliti biscotti, preparare il biberon al cucciolo e fare il caffè. Quindi mise il bimbo sul seggiolone e gli piazzò in mano un bel biscotto plasmon. L’idea era stata buona, il piccolo si era concentrato sul biscotto e aveva smesso di lamentarsi a sua volta. Primo momento di panico. La frettolosa ingestione del latte e del caffè aveva dato il via perentorio e con maggior velocità rispetto al solito, al count down intestinale. Sgranò di colpo gli occhi, irrigidì la schiena, diede un rapido sguardo al piccolo e uno alla porta della cucina cercando la soluzione più efficace! Prese probabilmente la miglior decisione possibile. Agguantò il seggiolone da dietro, con tutto il suo contenuto che diceva “Maa-mma, maa-mma!” e lo spinse di corsa e con un importante gesto atletico per il corridoio e fino al bagno. Lo sprint gli sarebbe certamente valso la qualificazione agli ottavi di finale nel Bob a due alle ultime Olimpiadi invernali di Vancouver. Piazzò il bob proprio in mezzo alla porta aperta, e si lasciò esplodere sul water mentre il volto dell’innocenza lo fissava divertito sgranocchiando il biscotto e ridendo di gusto: “Maa-mma!”.
“Io sono papà!” gli disse Osvaldo fiero.
La riunione di gabinetto fu molto più rapida del solito. Le operazioni di pulizia e abluzione ridotte al minimo sindacale, quindi di nuovo con il bob in cucina, questa volta a ritmi più da allenamento che da gara. Il pargolo rideva felice. Il biberon con il latte era pronto quindi prese il fagotto dalla sua posizione di guida e lo portò sul divano dove gli diede il latte facendolo distrarre con i cari vecchi cartoni animati di Will Coyote. Si erano fatte le otto e quindici, urgeva svegliare il grande. Prima però cambio di pannolino e lavaggio del morbido culetto del cagone, con tutto l’ovvio campionario di orrore, disgusto e ripugnanza tipico di chi non è abituato a queste pratiche da indomiti samurai. Operazione spregevole ma tutto sommato conclusa con successo e senza gravi imprevisti. Si ripromise però di chiedere alla pediatra se fosse normale che un cucciolo così piccolo riuscisse a produrre simili quantità industriali di cacca! Per riuscire a svegliare il grande ci vollero poi quindici minuti buoni con il piccoletto che gli gattonava sopra e gli tirava i capelli e Osvaldo che incessantemente lo chiamava “Alessaaaaandrooooo!”. Niente.

Alle otto e trentacinque il piccolo più grande aprì gli occhi e disse nell’ordine: “Dov’è mamma?” poi “Dov’è Inglid?” quindi “Io non mi alzo mai!” e infine “Io non faccio colazione, mai, mai, mai!”
Osvaldo lo prese di peso cristonando mentre lui continuava a frignare, abbandonò l’altro nel lettino e lo portò a fare pipì e poi in cucina dove gli mise sotto il naso al volo due biscotti e un bicchiere di latte intimandogli un poco paterno: “Mangia! Hai sette minuti!”. Poi sempre benedicendo e osannando ad alta voce l’altissimo andò a prendere l’aquilotto che intanto aveva cominciato a piangere. La famiglia, mamma a parte, era dunque riunita in cucina, erano le otto e quarantacinque ed erano ancora tutti e tre in pigiama.
Fra suppliche e minacce Osvaldo riuscì a trovare un minimo di intesa con il capriccioso grande che pur riottoso finì la colazione, quindi tutti a vestirsi. Circo Barnum, numero degli acrobati bulgari: tutti per terra sul tappetone della cameretta: una maglietta al piccolo, una maglietta al grande, le calze a papà, andare a riprendere il piccolo che intanto è scappato verso il bagno obiettivo il rubinetto del bidè (il precoce già camminava e pure alla svelta!). Chiudere le porte dei bagni e della cameretta, pantalone al piccolo, pantalone al grande, camicia a papà, rimettere il pantalone al grande (che intanto se lo era tolto). Insomma un pezzo a uno, un pezzo all’altro alle nove erano finalmente tutti e tre vestiti, con i cappottini, i cappellini, la ventiquattrore, lo zainetto, le scarpe, le chiavi, il telefonino, il gormita, le altre chiavi, il ciucciotto… tutto l’armamentario d’ordinanza incredibilmente al suo posto.
Osvaldo completamente sudato.
Un miracolo. O un incubo a seconda dei punti di vista.
Il resto fu ordinaria amministrazione, prima un asilo, poi l’altro, lite in entrambi i casi con dei passanti per via dell’auto parcheggiata a cappella e in diagonale sul marciapiede
“E’ un’emergenza, la tolgo subito, siamo in ritardo!”,
quindi l’arrivo in ritardo in ufficio con un filino di stress addosso.
Al primo collega che gli chiese:
“Ciao Osvaldo, come va?”
rispose minaccioso:
“Sono sfinito. Io la mia giornata di lavoro l’ho già fatta!”
E l’altro sorrise, guardò l’orologio, non disse nulla e pensò:
“Ma se non sono nemmeno le 10.00!”

Il misero tapino ancora non sapeva che nei soli tre giorni successivi, causa febbre alta del piccolino, sarebbe rimasto a casa a fare il mammo a tempo pieno e avrebbe così avuto modo di confrontarsi anche con altre specialità olimpiche: pianto a dirotto notturno, occhiaie da sonno, vomito a spaglio con effetto “Esorcista”, diarree atroci con tracimazione di pannolino, body e pigiamino, rifiuto categorico della pappa con sputo a spruzzo o lancio a catapulta con quelle belle manine paffute, pipì a idrante durante il pit stop pannolino.
I giochi senza frontiere al confronto erano una burletta. Mancava solo il familiare fischietto di Guido Pancaldi e Gennaro Olivieri. Una roba da guerrieri Ninja!
Che tesori che sono questi morbidi fagottini.
“Bello amore di papà! … E io che volevo prendere un Labrador!”

di Giuseppe Gatto
Libera 
Università di Alcatraz