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giovedì 7 agosto 2008

CHIODI (di Giuseppe Gatto)

“Largo, fate passare!”
Urla.
“Presto, presto, Fabrizio prendi la barella…”
“Spostatevi, forza! Non potete stare qui…”
Concitazione.
“Voi due, venite ad aiutarci!”
“Codice rosso! Angela fai chiamare subito Stezzari, bisogna preparare la sala operatoria: il paziente è grave”
“Forza, al tre. Uno, due, tre. Dai, dai…”
Grande concitazione.
L’ambulanza era arrivata all’ingresso del Pronto Soccorso, ostruito dalla solita auto parcheggiata fuori posto. Ne era seguito un vivace trambusto. Gli infermieri erano saltati fuori dal veicolo urlando, sbracciandosi e chiamando in aiuto altri colleghi.
Dietro l’ambulanza si era materializzata un’auto della polizia giudiziaria, da cui erano scesi tre uomini in divisa ad una velocità da telefilm americano.
Sulla barella un uomo enorme con il volto ed il petto coperti di sangue. Spalle da guerriero spartano, alto quasi due metri, la testa a forma di cubo, un brionvega da dodici pollici con i capelli a spazzola biondi. Un armadio di muscoli con la mascella quadrata, apparentemente di pietra, due prosciutti al posto delle braccia. Per riuscire a tirarlo fuori dall’ambulanza c’erano volute quattro persone.
La barella, cigolando, correva per i corridoi grigi e beige verso la sala operatoria. A seguire i poliziotti, con una mano sulla fondina della pistola ed una sul cappello. L’uomo aveva un chiodo da muratore, di quelli belli grossi, infilato in mezzo alla fronte, ben più della metà. Poco più in alto delle sopracciglia.
Era uno straniero, vivo e in forte stato confusionale. Cercava di dire qualcosa ma pronunciava solo grugniti incomprensibili. Era svenuto, quando si era ripreso si era sentito sballottato, preso di peso e adagiato su un piano rigido, quasi freddo, che tremava, vibrava e si muoveva. Sentiva che lo stavano spingendo, fra rumori e voci, luci come flash che gli accecavano gli occhi, annebbiati dal sangue. Neon bianchi. Odore di disinfettante. Un sogno confuso, fatto di rumori, voci, luci, vista annebbiata…
Lo sedarono e lo spogliarono: su un braccio aveva tatuata la scritta - welcome to hell - con caratteri grossi come carte da gioco. Sul petto lo scontro fra due grandi pugni chiusi, uno contro l’altro, con le vene gonfie e tese, legati da filo spinato, in mezzo la fiamma di un esplosione con sfumature gialle, blu, rosse. Sulla schiena l’opera più imponente: un dipinto-su-uomo di un metro per un metro. Croce celtica tridimensionale al centro e due enormi leoni neri e indaco ai lati, in piedi sulle zampe posteriori, muscoli e tendini tirati, criniera imponente. Lunghe cicatrici sparse un po’ ovunque: sul petto, sul collo, sulle gambe.
Uno che se lo incontri in una strada poco frequentata, ti viene da consegnargli direttamente soldi, orologio e telefonino, … sperando di poterlo poi raccontare agli amici.
Arrivarono i medici mentre l’uomo stava già facendo la TAC. Il chiodo era penetrato nel cervello incredibilmente senza ledere strutture vitali. Questione di millimetri. Un capello più in là e sarebbe morto.
“Non ho mai visto una cosa simile!” disse uno
“Io una volta si, un incidente in un cantiere” disse un altro “però non superò la notte” aggiunse
“Questo è un carcerato, l’hanno portato direttamente da Regina Coeli”
“Avranno cercato di ucciderlo … non mi sembra un incidente”
Medici e infermieri conversavano intorno al Carnera biondo.
“Giusto perché ha una testa come quella di un bue, altrimenti…”
I chirurghi studiavano la TAC: “Vedi, il chiodo ha penetrato la scatola cranica e si è infilato proprio in mezzo ai due emisferi, in una zona ricca di plessi venosi ma sembra non aver provocato danni irreversibili”
“Per come è entrato in profondità l’estrazione diretta con la pinza a cranio chiuso è fuori discussione. Il rischio di emorragia è troppo alto. Dobbiamo aprire”.
Era tutto pronto, il frigorifero umano era già addormentato.
Il tavolo operatorio reggeva ma dovettero inserire due supporti laterali per poter appoggiare anche braccia e spalle del gigante.
I chirurghi praticarono un incisione intorno al chiodo di circa tre centimetri per lato, con una piccola sega elettronica di precisione, poi venne estratto il chiodo grazie ad una pinza abilmente manovrata con un movimento lento e rotatorio dal dottor Stezzari. Contemporaneamente asportarono anche il tassello d’osso come si fa d’estate con le angurie. Per diversi secondi tutta la sala operatoria sembrò trattenere il respiro.
“Cauterizzate tutti i vasi” disse il chirurgo con lo stesso tono fermo delle sue mani. Venne eliminato il pezzo di ferro dal quadrato d’osso e quindi rimesso a posto il tutto.
Le mani e gli arnesi degli uomini in camice si muovevano in modo stupefacente. Le dita scivolavano velocemente fra ossa, cervello e sangue. Sembrava che stessero semplicemente sistemando dei pezzi nel cofano motore di una piccola auto. Ecco qui, un’occhiata al carburatore, una al filtro, un’avvitatina qui, un’altra qua...
“Voilà, come nuovo” disse il neurochirurgo per stemperare la tensione. Il paziente era salvo ma l’intervento era stato tutt’altro che semplice.. La sua equipe a fine intervento partì con l’applauso e non succedeva di frequente, … l’avevano ripreso per il classico pelo.
“Mi chiedo come abbiano potuto fargli questo scherzo, per tenere un bisonte così grosso devono averlo tenuto in sei”
“Forse l’hanno colpito mentre dormiva”
“Però è arrivato con la divisa da giorno” disse un infermiere evidentemente esperto in materia
“Oh, almeno stasera ho qualcosa da raccontare a mia moglie!” disse cinicamente un altro
“Portatelo giù in rianimazione”

Dopo dieci giorni Igor, questo era il nome della montagna umana, si era ristabilito. Era ancora tutto fasciato e debole, piantonato a vista in una stanza dell’ospedale che veniva spesso dedicata ai reclusi ricoverati. Nella stanza c’era anche Alvaro, un delinquente romano che andava per i settant’anni, ricoverato per problemi cardiaci. Igor non aveva cantato, la polizia era convinta che sapesse benissimo chi aveva cercato di ucciderlo ma lui continuava ad affermare di non ricordare nulla.
“Buongiorno gigante” gli disse Alvaro con la voce roca da fumatore
“Ciao” grugnì Igor
“Che t’hanno pijàto pè na parete? Te volevano attaccà ‘n quadro sulla fronte?”
Igor lo guardò senza cambiare espressione e non rispose.
Il vecchio aveva una folta capigliatura, bianca come le sopracciglia, il naso grosso e bitorzoluto, fisico tozzo ma non grasso, nascosto da un pigiama con la giacchetta, azzurro con il bordino bianco. Dopo due giorni i due erano diventati amici. Alvaro gli aveva raccontato tutta la sua vita. Quando era finito dentro le prime volte per piccoli furti: autoradio, portafogli, poi il furto con scasso in una gioielleria, la galera era stata la sua casa, la sua scuola e la sua famiglia. Ne entrava e usciva spesso e volentieri, era un criminale di una volta, di quelli con un codice d’onore. A modo suo era una persona semplice e persino onesta. Poi cinque anni prima in una lite, per difendere sua figlia, aveva ucciso un uomo. Quindi ora sarebbe rimasto dentro per un bel po’.
“E pensare” proseguiva il vecchio “che ormai avevo appeso i ferri del mestiere al chiodo… Oh scusa” scoppiò a ridere “nun volevo fà ‘a battuta!”
Sorrise anche Igor.
La stanza aveva le pareti azzurrine, i letti in tubolari di acciaio che probabilmente avevano pochi anni meno di Alvaro, armadietti e comodini di formica verde e una grande finestra.
“Comunque lo rifarei tutti i giorni. Quel bastardo nun doveva mètte le mani addosso a mi fìja”
“Alvaro” disse Igor senza nemmeno girare la testa, era ancora tutto fasciato e pieno di tubi e flebo.
Il vecchio fece solo un cenno alzando il mento, come per dire – Si, che c’è? –
“Sei un uomo bravo”
“Sono un fregnòne, nella mia vita sò stato più tempo ar gabbio che a casa mia… mò ce s’è messo pure er core a fa er cojòne…”
Si portò istintivamente una mano al petto a controllare che fosse tutto a posto
“A me è successa cosa simile” disse Igor con il suo forte accento dell’est
“Che voi dì?”
“Io sono dentro per rapina armata ma non ho mai ucciso nessuno. Rubato si, da tanti anni. Non credo di saper fare altro. In mio paese facevo combattimenti illegali ma poi sono scappato, non mi piace picchiare, fare male. Troppa violenza.”
“Però c’hai dei tatuaggi che pari un legionario!”
“Me li fece fare il boss, io ero un ragazzo, diceva che così facevo più paura”
“Ma io direi che dovevi fa’ abbastanza paura pure prima” e rise di nuovo.
“Ci hanno preso perché durante rapina mio compagno ha preso ostaggio bambina, minacciava con coltello alla gola. Poteva ucciderla. Gli ho spezzato polso, lui ha cercato di colpirmi con coltello, l’ho colpito, mentre gli altri due pensavano a dividere noi è arrivata la polizia. Uno dei nostri è stato anche ucciso… Un vero casino”
“E sì, … proprio un casino…”
“Ma io lo conosco, non ci avrebbe pensato due volte a sgozzarla come animale…”
“Insomma hai difeso una piccoletta, un tuo compagno è morto e v’hanno arrestato. Mo so cazzi tua! Ho capito perché t’hanno piantato un chiodo ‘n testa. Però ancora me chiedo come cazzo hanno fatto, sei ‘na specie de rinoceronte! … Comunque sai che te dico? Hai fatto bene!”
“Ora me l’hanno giurata, sono italiani, in galera conoscono tante persone. Io sono grosso ma se vengono in venti mi fanno quello che vogliono…”
“E non lo so… Comunque grazie che m’hai detto stè cose. Io sò muto come nà tomba. Nun te preoccupà”
“… Alvaro, c’è un’altra cosa, … il chiodo…”
silenzio
“il chiodo?” lo incalzò l’altro
“me lo sono infilato da solo”
“Cosa?” urlò il vecchio
“Avrebbero cercato di farmi fuori presto. Avevo sentito che spedizione era per la sera. Dovevo uscire per forza. Allora ho tirato fuori chiodo da una panca, l’ho poggiato sulla fronte e ho dato una testata forte al muro…”
“Li mortacci tua!!! Ma tagliate a un piede, fatte male a nà mano, non un chiodo in testa!!! … Eccheccàzzo!”
“Mi volevo solo ferire per andare in ospedale. Una cosa facile ti portano in infermeria di carcere. Chiodo in testa non puoi curare in infermeria… Qua è più difficile che arrivano”
“Ma tu sei pazzo fregato, … e comunque mi sa che sta capocciata l’hai data troppo forte! Li ho sentiti gli infermieri che chiacchieravano. Il chiodo ce l’avevi proprio dentro il cervello. Ti conoscono tutti in ospedale. Sei una specie di leggenda. Diceva il dottore che chiunque altro sarebbe finito al creatore. Diceva che tu c’hai un capoccione esagerato e che hai avuto un culo incredibile… Sei proprio matto” e si battè energicamente l’indice della mano sinistra sulla tempia scuotendo la testa per rafforzare il concetto
“Non avevo scelta, però sì, … capocciata troppo forte… Prossima volta più piano”
“Prossima volta?” disse Alvaro sgranando gli occhi
“Scherzo…” rispose Igor con una risata fioca e debole. Sembrava ridere più con il corpo che con la voce.
In quel preciso momento si sentì un urlo soffocato ed un tonfo. Entrò nella stanza un uomo magro con barba e capelli lunghi, aveva un ghigno marcio di denti gialli. Occhi piccoli e incavati, lo sguardo freddo di un professionista. Fu meno di un istante: alzò la mano destra e la rivolse verso Igor, stringeva nel pugno una pistola con un lungo silenziatore. Il rumeno sbarrò gli occhi, il killer stava per premette il grilletto quando gli piombò in piena faccia una bottiglia di acqua minerale. Il preciso lancio di Alvaro lo prese in pieno. Il proiettile si infilò nel soffitto. L’effervescente naturale da un litro esplose in faccia al killer disegnando tutto intorno un quadro astratto di pezzi di vetro verde e sangue. Igor guardò il vecchio stupito e incredulo.
“Grazie!” balbettò
“Ma te pare!” rise Alvaro
Il gigante si alzò tirandosi dietro tubi, fili, elastici e flebo, che strappò via. L’uomo si stava rialzando, Igor gli piantò un cazzotto in faccia che avrebbe tramortito un bufalo, poi si impadronì della pistola che mise nella cintola dei pantaloni. Si avvicinò ad Alvaro, gli prese la faccia fra le sue manone lo guardò negli occhi e gli sorrise di nuovo:
“Bella mira… Vai via da questa stanza, questo non si rialza subito ma potrebbe esserci qualcun altro…”
“Vai via te, corri. Che a me ce bado io…”
Il rumeno lo abbracciò poi uscì dalla stanza. Vide il poliziotto esanime davanti la porta, forse colpito in testa con il calcio della pistola. Si sincerò che fosse ancora vivo, poi cominciò a correre per i corridoi…

Alvaro era rimasto seduto, si portò la mano al petto, una fitta acuta – il lancio della bottiglia – pensò. Si mise a ridere fra sé:
“Però che tranvata che j'ò dato a stò stronzo!”.
Un’altra fitta, più forte della prima, al petto e al braccio sinistro.
Gli si disegnò sul viso una smorfia di dolore, la bocca tirata in un sorriso stupito, e si accasciò di fianco sul letto.

martedì 1 luglio 2008

L'ALBERO DELLE MORE (di Giuseppe Gatto)


“Ma è questo?” dissi
Lei fece sì con un cenno del capo ed un lieve sorriso
“Dai, non ci posso credere! Mi prendi in giro…”
“Ma no! E’ lui!”
“Ma il nostro era … più grosso, più alto. Era enorme! E poi era in mezzo al nulla!”
“Amedeo, avevamo sei anni, ci sembrava enorme! Sono passati più di trent’anni. E’ già un miracolo che sia ancora qui, tutte queste case non c’erano. Ora sembra un bonsai!”
– Il nostro bonsai – penso, e invece dico:
“Un bonsai in mezzo al cemento”
“Arrivavamo in bicicletta, quasi tutti i pomeriggi…” riprende lei “era il nostro rifugio, salivamo su e mangiavamo tutte le more che riuscivamo a raggiungere...”
“...troppo buone! Bianche, dolcissime…”
Continuiamo a parlare e a guardare quello che era il nostro mondo. Non ci vediamo da allora. Giovanna ride, con quel suo sorriso infinito che mi metteva soggezione e mi faceva arrossire già a sei anni. Eravamo soltanto due bambini eppure io ne ero perdutamente innamorato, come solo un bambino sa esserlo. Ricordavo perfettamente la luce e l’allegria dei suoi grandi occhi verdi, le fossette sulle sue guance e quel suo modo particolare di ridere. Avevo sette anni quando la mia famiglia cambiò mare e non ci vedemmo più. Oggi sono passato per caso da queste parti e non ho potuto fare a meno di cercarla. E’ tardo pomeriggio ma il caldo è comunque da estate inoltrata. Nell’aria c’è un bell’odore di salsedine e di pietre calde. La sua casa era sempre lì, inclusi il vecchio cancello verde ed il muretto bianco. Sono rimasto immobile per dieci minuti, forse più. Poi ho preso coraggio e l’ho chiamata. Lei è uscita, con il pancione e due marmocchi stupendi attaccati alle gambe. – E’ sempre la stessa – ho pensato – il naso un po’ più importante, qualche ruga, un’aria meno spensierata, ma il sorriso dei suoi occhi e le fossette sulle guance sono proprio lì dove li avevo lasciati –
Giovanna mi ha scrutato per qualche secondo prima di inarcare le sopracciglia, esclamare il mio nome e scoppiare in un sorriso totale. Dopo il caffè di rito siamo usciti a fare una passeggiata, i suoi piccoli sono rimasti in giardino con la nonna.
“Nonna, chi è quel signore?”
“E’ Amedeo, un amichetto della mamma”
Ho notato lo sguardo furbo del maschietto che aggrottava la fronte e probabilmente faticava a catalogarmi nella categoria amichetti, viste le mie dimensioni.
Come guidati da un navigatore satellitare siamo arrivati all’albero delle more.
“Restavamo qui a giocare per ore” continuo guardando il punto dove il tronco si apre come una mano.
“Sì, quest’albero era un castello, un aereo, una nave spaziale...”
“Mah, … io soprattutto venivo per mangiare le more! E poi arrampicarmi sui rami mi faceva sentire molto Tarzan!”
Ride. Mi dà una spinta sulla spalla. Come è bella.
“Giovanna, ma tu lo avevi capito che ero innamorato di te?”
L’ho pensato a bruciapelo ma le mie labbra non si sono mosse di un millimetro.
“Come mai sei scomparso?” dice “Potevi passare a salutarci ogni tanto!”
“Il giorno che dovevo partire venni a salutarti, arrivai vicino al fiume e ti vidi giocare e scherzare con Giulio. Ero a pochi metri da voi quando tu lo hai abbracciato, quasi di scatto, e gli hai dato un lungo bacio sulla guancia, con gli occhi chiusi, lo ricordo bene. Sentii un pugno qui, alla bocca dello stomaco, una vampata di calore in viso e scappai via”
Di nuovo, le labbra non si sono mosse. Poi dico:
“Boh, eravamo bambini…” e alzo le spalle “posso?” lei fa cenno di sì e le sfioro la pancia con la mano. Da quando sono diventato anche io papà, le pance mi fanno una tenerezza infinita.
Mi prende la mano fra le sue: “mi ha fatto piacere rivederti. Ma ora devo scappare. Giurami che ripassi, magari mangiamo un boccone assieme e ci facciamo un bagno, ok?”
“Si certo. Devo andare anche io, ciao Giovanna”
“Ciao”
Il tempo si ferma. Non sento più uccellini e cicale, né il caldo sulla pelle, né la risacca in lontananza. Persino l'aria mi sembra più fredda e rarefatta.
E mi riprendo finalmente ciò che era mio. Il mio bacio sulla guancia.
Con qualche anno di ritardo.


di Giuseppe Gatto


venerdì 27 giugno 2008

I RACCONTI DI KARIN


Una piccola informazione di servizio. Alcuni miei racconti vengono da poco ospitati sulla rivista I racconti di Karin. Una rivista letteraria allo stato embrionale (ma mica poi tanto!). Una microrivista che è già arrivata al numero due, passando attraverso il numero zero ed il numero uno (Il numero tre è in preparazione). Uno spazio che ospita artisti, scrittori, vignettisti, poeti, che hanno qualcosa da dire, da mostrare... Il suo ideatore, Stefano Pelloni, desiderava creare un punto d'incontro per coloro che vogliono dare voce ai propri lavori. Secondo me ci sta riuscendo. I suoi racconti sono peraltro molto belli

Chi fosse interessato a pubblicare i propri lavori sulla rivista può contattare direttamente Stefano (e-mail: pell68@libero.it)

I racconti di Karin è scaricabile gratuitamente su LULU' e anche acquistabile in versione cartacea, of course! Clicca su Lulù (http://www.lulu.com/) e cerca "I racconti di Karin"

Giuseppe Gatto

mercoledì 21 maggio 2008

MILENA (di Giuseppe Gatto)


“Non c’èee nieeen-teee, che siaaaa per seeem-preeee, è troooppo ormai che staiii cosi male, il tuo diploma è un fallimento è una laurea per reagiiireeee”.
La voce roca e sensuale di Manuel Agnelli si diffonde dallo stereo con il volume a palla. Sono le tre di notte. I vicini non dicono nulla. Forse si sono rassegnati. Oppure la casa è insonorizzata davvero bene.
Fuori piove. Sono seduto in poltrona, in mutande e maglietta, con lo sguardo concentratissimo sul nulla. Il Jack Daniels è finito da un pezzo ma stringo ancora la bottiglia nella mano destra.
Quasi fosse la boa che mi tiene a galla.
Sento musica e pioggia entrambe in versione molto ovattata. La punta di un trapano mi passa le tempie da parte a parte. Devo aver bevuto troppo.
Ormai sono passate diverse ore che Milena è uscita da quella porta, sbattendosela forte alle spalle e trascinando una grossa valigia. Da un momento all’altro ricompare e facciamo pace…

- “Sei sempre il solito stronzo, non te ne frega nulla di me, non te ne è mai fregato!”
- “ma amore, cosa stai dicendo? Cosa ho fatto?”
- “lo sai benissimo cosa hai fatto” stava urlando, come al solito,
- “calmati, prova a spiegarmelo, ti giuro che non ci sto capendo nulla. E smettila di urlare”
- “urlo quando mi pare cazzo, URLO QUANDO MI PARE VABBENE!”
Urlava veramente come e quando gli pareva. Milena era bravissima ad urlare. Una professionista. Quando le cose andavano bene era la persona migliore che conoscessi, dolce, sorridente, un angelo con lo sguardo da sirena… Bella, radiosa, di un fascino etereo, quasi evanescente. Ma quando si arrabbiava sembrava posseduta dal demonio. La bava alla bocca, gli occhi iniettati di sangue, lo sguardo di una tigre ferita… e cominciava ad urlare, urlare, urlare.
Dio che mal di testa. Devo ricordarmi di comprare un altro Jack. Cerco le ultime gocce ma la bottiglia a base quadrata è completamente secca.
Di solito sta via un’ora o due, poi smaltisce la crisi isterica e ritorna. Ci abbracciamo. A volte facciamo l’amore senza dire nulla. A volte lo facciamo piangendo.

- “Non lo capisci che non mi sento amata, stronzo! Che vorrei di più da te. Che ti vorrei diverso!”
Avevo smesso di risponderle. Non ho più fiato, non ho più parole. Non ho più energia. Sono ormai quasi due anni che mi ripete le stesse cose come un disco rotto. Però la valigia non l’aveva mai fatta. Ma lo so. Poi le passa. Fra un po’ torna.
- “Basta! Sei un pezzo di merda, mi fai schifo, MI FAI SCHIIIFOOOO!”
- “Ti prego, calmati, sei fuori di te”
- “sono CALMISSIMA” urlava. Quando arrivava a quello stadio di urla e insulti non era calma proprio per niente!
Ha buttato in terra un vaso, che incredibilmente non si è rotto! Poi si è chiusa in camera. Ne è uscita piangendo dopo venti minuti con la valigia. Un ultimo vaffanculo urlatomi in faccia a pieni polmoni e poi sbam è sparita dietro la porta.
Ma come siamo potuti arrivare a questo?
Guardo attraverso la finestra: le gocce di pioggia, il buio, qualche luce nella collina di fronte e mi addormento.
Alle sei di mattina ho un sussulto. La poltrona è scomodissima. Dio che male al collo. Ho dormito qualche ora e incredibilmente stringo ancora a me come un bambino in grembo la bottiglia vuota. La guardo speranzoso ma è ancora vuota. Fuori non ha smesso di piovere. Mi guardo intorno sperando di vederla ma in casa non c’è nessuno, oltre a me. Mi viene da pisciare. Vado in bagno, passando vicino al tavolo raccolgo il vaso. Lo tocco con le nocche del pugno ton – ton… ecco perché non si è rotto, è di metallo, avrei giurato fosse di ceramica, ... mi sembrava strano!
Espleto i bisogni fisiologici, ho un bruciore allo stomaco che sembra una fissione nucleare. Il mio sguardo si sofferma sullo specchio. Non sono un bello spettacolo, eppure a Milena piaccio, che gusti... è che non gli piaccio più dentro. Vuole di più, mi vuole diverso. Dovrei decidermi a crescere… Ma se solo capissi per davvero cosa diavolo vuole. Crescere, cambiare, diverso. Si, ma cambiare cosa? Diverso come?
Altra stilettata di acido alla bocca dello stomaco. Come un pugno liquido.
Devo aver bevuto proprio troppo. Devo mangiare qualcosa. E anche comprare un’altra bottiglia di distillato di cereali invecchiato in botte. Cerco le calze sul pavimento, prendo la camicia sul divano, test olfattivo discreto, la indosso. Il pantalone dove l’ho messo? Ah, eccolo. Faccio un salto giù al bar. Guardo l’orologio al muro, sono passate da poco le sette.
Fuori c’è un odore di strada e prato bagnato, il profumo di quando smette di piovere. Infatti ha smesso e sta tornando il sereno . Magari è un buon segno. Bello quest’odore, tiro dentro l’aria dal naso con un profondo respiro, chiudo gli occhi. Li riapro che mi gira la testa, ho inspirato troppo ossigeno tutto insieme!
- “Ciao Marco, Buongiorno. Ti sei alzato presto stamattina!”
- “Si, certo, ora vado anche a fare un po’ di footing. … Fammi un cappuccio, và… e dammi anche due brioche, chissà mi passa stò bruciore. Ah, … e non dire stronzate di prima mattina che lo sai che non riesco a reagire. Ce l’hai una bottiglia di Jack Daniels?”
- “quante ne vuoi”
- “per ora ne basta una…”
Compro anche il quotidiano e torno su nel nido.
Milena non è tornata.
Vinco l’orgoglio e provo a chiamarla, non è mai stata via così a lungo. Il telefono è staccato. Riprovo. Niente.
Apro la bottiglia e mi butto in gola un’abbondante sorsata che mi infiamma il petto. Sollievo.
Comincia a mancarmi. Più passa la sbornia e più mi manca. Il suo corpo, il suo profumo, la sua voce, l’angolo del suo viso, fra il naso e la fronte, quando mi si appoggia sul petto e nell’incavo del mio collo, la sua posizione preferita per dormire.
Il sole compare all’improvviso, fortissimo, sembra esplodere. Una lama di luce entra nel soggiorno. Dio la testa. Devo dormire, vado in camera, il letto è ancora sfatto è il suo odore è ancora lì che galleggia a mezz’aria. Mentre alzo le lenzuola e mi sfilo i pantaloni vedo sul comodino il foglio piegato. Una lettera. Mi ha scritto una lettera! E’ piegata in due, la prendo e la apro.
Un brivido ghiacciato mi entra da non so dove alla base della nuca, scende giù per la schiena e mi piega le gambe, come una frustata. Cado seduto sul bordo del letto e rileggo di nuovo quelle poche righe.
E piango. Finalmente piango. Con la testa fra le mani. Inebetito.
Milena non tornerà più.

di Giuseppe Gatto

racconti e storie di Giuseppe Gatto

domenica 20 aprile 2008

SPALLATA MUSCOLARE (di Giuseppe Gatto)


Arrivammo sul campo di calcetto direttamente dalla spiaggia. Ci eravamo portati dietro le borse. Chissà a chi era venuto in mente di organizzare l’incontro alle sei di pomeriggio! Pieno agosto, faceva un caldo esagerato e passare dal costume da bagno al completino maglietta-pantaloncino-calze-scarpechiuse era piuttosto seccante. Il classico torneo estivo di calcio a otto, un bel campo grande e incredibilmente polveroso. Terra finissima, solo a camminarci sopra si sollevava una nuvola densa e persistente.
C’eravamo tutti: Batman in porta, Andrea, Pasquale, Elio e gli altri. Amici estivi provenienti da varie città. Ci eravamo iscritti con il nome di “Brasato&Polenta” per via che due del gruppo, della provincia di Bergamo, al pranzo di ferragosto avevano preparato per l’appunto un pentolone di brasato con polenta cotta nel paiolo di rame. Il tutto annaffiato da grandi quantità di Vin brulè. Mentre fuori c’erano 40 gradi all’ombra. Però era stata una giornata magnifica!
La squadra avversaria era invece una granitica compagine locale. Ragazzi dai fisici forti, temprati dal lavoro nei campi, nell’edilizia abusiva e nelle risse da strada. Avevano anche lo straniero: il portiere napoletano. Ci trovavamo sulla costa ionica calabrese. Noi con la maglietta giallo senape e loro a righe orizzontali bianche e verdi che li faceva sembrare una squadra di rugby.
Eravamo pronti e stavamo scambiando qualche palleggio di riscaldamento. Eravamo già sudati.
“Oh, ma l’hai visto a quello?” mi disse Andrea indicandomi con un impercettibile movimento degli occhi un energumeno che stava entrando in campo. Mi girai e vidi un orco del “Signore degli anelli”, alto almeno un metro e novanta, largo come un frigorifero, con la maglietta enorme che gli aderiva come un body da danza, completamente privo di collo, con la testa attaccata direttamente sul tronco.
Brutto da incutere timore. Occhi piccoli e sguardo cattivo, naso enorme e bitorzoluto, bocca da maiale, pelle butterata e capelli ispidi che gli partivano appena un centimetro sopra le sopracciglia.
“Minchia” risposi “se uno così lo incontri per strada alzi le mani e gli dai il portafoglio! Chissà se gioca avanti o dietro”
“Quello dove gioca gioca fà danni, te lo dico io! Speriamo bene!” disse Andrea e fece un impercettibile segno della croce.
Anche gli altri non scherzavano. Fisicamente ci sovrastavano. Per fortuna sul tocco di palla eravamo in vantaggio: Pasquale ed Elio con la palla fra i piedi sembravano ispirati da un’entità soprannaturale. Era un piacere vederli correre per il campo con la sfera incollata al piede. Io non giocavo un granché bene ma ero veloce, scattavo in avanti in attesa dei passaggi dei miei due compagni e cercavo di buttarla dentro, un po’ alla Ciccio Graziani. Una volta raccolsi la palla dal nostro portiere la lanciai sulla destra, il mio compagno fece velocemente tutto il campo lungo la fascia laterale, crossò al centro ed io ero lì a colpirla di testa. Lui si voltò verso la nostra area per capire chi gli avesse passato la palla. Ero velocissimo.

Fischio d’inizio. Era un torneo serio: c’era persino l’arbitro! Ed una sparuta tifoseria costituita per lo più da familiari ed amici dei giocatori oltre ai soliti curiosi.
Capimmo subito che sarebbe stato un tardo pomeriggio lunghissimo. La metà dei giocatori in campo correva dietro la palla senza costrutto e sollevando un’inverosimile quantità di terra e polvere. A tratti non si vedeva nulla. Dopo i primi contrasti capimmo anche che era meglio adottare una strategia conservativa. Gli avversari erano scarsi nel tocco di palla ma ben più preparati nel tocco di caviglie e gambe. Una squadra di picchiatori assassini.
Pasquale prese palla ne fece fuori un paio in dribbling riuscì a crossare un pallone sul quale c’era scritto – spingere in porta, grazie – feci solo tre passi, veloci, incornai il cuoio, papera del portiere che uscì a raccogliere farfalle e uno a zero per noi.
Palla al centro e sedici occhi avvelenati si posarono su di me. Mi vedevo già sulla barella dell’ambulanza. Uno bravo lo avevano anche gli avversari: tale Mimmo, conquistò la palla, fece qualche lunga falcata e tirò un missile terra-aria in direzione di Batman. Solo che lo chiamavamo Batman mica per niente: volò da un palo all’altro come un vero supereroe e saldò la palla nella morsa delle sue grandi manone.
“Un ce tirate e luntano che è lùangu e i pìglia tutte!” disse ai suoi l’orco e udimmo per la prima volta la sua voce, che sembrava provenire dagli inferi.
Di nuovo noi all’attacco, Pasquale si involò sulla fascia. Questa volta però l’orco aveva capito e gli corse incontro come il rinoceronte in “Pomi-d’Ottone-e-manici-di-scopa”. Da un lato del campetto c’era una rete metallica, a due metri dalla linea di fallo laterale. Pasquale venne spalmato sopra la rete dal corpo dell’energumeno come fosse una pelle di daino e si afflosciò come un palloncino bucato. Lo aveva caricato in modo fallosissimo, come si fa a hockey, ma lì ci sono casco e protezioni!
Lungo fischio dell’arbitro.
“Spallàt' muscolare!” grido l’orco.
“Stai zitto che ti sbatto fuori, non sei a un incontro di wrestiling! ... Te la do io la spallata muscolare!” ebbe il coraggio di sibilargli a denti stretti l’arbitro! Pasquale si riprese ma da quel momento giocò e attaccò con molta meno veemenza. Avevamo tutti paura di finire nella sala gessi dell’ospedale del paese più vicino. Quando li vedevamo arrivare era naturale tirare un pelo indietro la caviglia o l’intera gamba a seconda dei casi...
Fu così che nonostante la grande prestazione di giornata del nostro dinoccolato portierone paratutto finimmo il primo tempo sotto di due a uno.
Nell’intervallo vidi che i Kaimani, così si chiamava l’altra squadra, avevano fatto capannello e guardavano nella mia direzione, stavano dicendo qualcosa all’orco e guardavano proprio me. E quello annuiva.
Deglutii saliva e polvere.
Fischio d’inizio del secondo tempo. Palla a Pasquale che finse l’affondo, tutti addosso a lui, cambiò gioco e con un lungo lancio liberò dall’altra parte Elio, che andò giù di taglio e mi passò un’altro pallone che era più difficile buttare fuori che dentro. Io, che avevo mezzo capito tutto, mi ero fiondato al centro ed avevo fatto da sponda quasi passiva: il pallone mi era rimbalzato addosso ed era finito in porta. Due a due. Ma dovevamo anche dire grazie al portiere che era veramente una cosa inutile, sembrava stesse facendo riscaldamento per un’esibizione di danza artistica tanto si sbracciava in modo sguaiato. La nostra tifoseria cominciò a ridere ed a prenderlo moderatamente per il culo, la tifoseria dei Kaimani cominciò a rumoreggiare.
Io mi sentivo sempre gli occhi dell’orco puntati addosso.
A metà del secondo tempo scoccò una scintilla che poteva diventare un’esplosione. La palla finì a fondo campo, dalla parte loro, in quel lato del campo non c’era la rete, c’era una corda a mezzo metro da terra che delimitava la zona di gioco, poco dopo c’era un piccolo dislivello e quindi i campi coltivati in piena irrigazione. Il loro portiere andò a prendere la palla trotterallando atleticamente, arrivò alla corda, fece per saltarla ma incespicò con il piede davanti e fini lungo la discesina, direttamente con la faccia nel fango. Sembrava fosse scomparso di colpo come caduto in una botola! Scoppiò il boato di una risata, in campo e fuori. Apriti cielo. I familiari del portiere minchione cominciarono una sceneggiata alla Mario Merola
“Uèeee ma comm’ ve permittite, chèllo o guagliòne s’è fatto male e vùie rirète?”, “Ma io vi accìro, vi accìiiro!” il papà, i fratelli, gli zii dell’imbecille si lanciarono all’attacco dei nostri amici che stavano ancora ridendo.
“Ma non si è fatto niente!” diceva qualcuno.
La mamma, le sorelle, le zie urlavano:
“U mammamìa!”, “Maròoonna”, “AAAaaah!!!” mentre tenevano e tiravano per le magliette e le braccia i loro uomini e si dimenavano come impazzite. Era tutta una farsa ma di grande impatto scenico. Si creò una straordinaria confusione a bordo campo: nuvole di polvere, urla, qualche ceffone. Intanto lo scemo si era rialzato, dipinto di terra e fango ma assolutamente incolume. Questo aiutò a sedare gli animi.
Anche i Kaimani fecero da pacieri, il tuffo a volo d’angelo del portiere aveva fatto ridere anche loro. Aveva divertito tutti tranne ovviamente i familiari stretti, era stata una scena magnifica, resa ancora più buffa dall’atteggiamento di ostentata sicurezza del deficiente!
Dopo dieci minuti di tumulto e principi di tafferuglio era tornato il sereno.
La partita proseguì con un forte stato di tensione e finì tre a tre. Andava benissimo. Eravamo tutti sani e salvi a parte Pasquale che aveva preso più botte di tutti ed era ancora un po’ intontito dalla spallata muscolare.
Tre o quattro di loro, orco incluso, si avvicinarono a me, mi arrivarono di fronte. Mi sentii tremare le gambe. L’orco mi disse:
“Sei tu Piero?”
deglutii un’altra dose di terra e saliva.
“Si” risposi
“Stasera fatti trovare in piazzetta”
Si voltarono e se ne andarono. I miei compagni si avvicinarono:
“Che ti hanno detto?”
“Che stasera mi uccidono”
“Che?”
“Mi hanno gentilmente dato appuntamento stasera in piazzetta. Me lo ha detto proprio l’armadio butterato puntandomi il dito contro!”
“Minchia!”
“Io stasera sto bello tappato in casa!” dissi
“secondo me è peggio, quelli poi ti vengono a cercare. Stai tranquillo, stasera in piazzetta ci siamo tutti” disse Pasquale
“Piero, siamo tutti con te, come i moschettieri” intervenne Andrea
“Si, moschettieri stò cazzo, voglio vedere come scappate tutti al primo ceffone” dissi io
Si stava facendo buio. Eravamo rimasti solo noi, sudati, sporchi, ancora con le magliette addosso, che ci guardavamo in faccia, soprattutto loro guardavano me e ci si chiedeva l’un l’altro con gli occhi – allora che si fa? –
“Non posso scappare davanti a ‘sti stronzi. Io stasera vado in piazzetta, come tutte le sere... e poi vediamo” feci risoluto
“Ci vediamo lì dopo cena, tutti, ok?” disse Elio.
“Tutti. Non ti molliamo Piero” fecero quasi in coro
Che poi perchè ce l’avevano proprio con me? Era dall’inizio della partita che mi guardavano, confabulavano, mi indicavano... porca puttana, ... ma tu guarda che cazzo mi doveva capitare...

A casa, doccia veloce e a tavola per la cena.
“Piero ma non mangi nulla!”
“Mamma, ho appena finito di giocare, non ho fame” mentii.
Avevo lo stomaco annodato. Alle dieci e mezza inforcai Attilio, il mio Cagiva 125 e andai in piazzetta. C’erano tutti: Batman, Pasquale, Andrea, Elio ed altri amici ai quali era giunta voce della cosa: Claudio, Riccardo, Lorenzo. Non ci scambiammo una sola parola. Ci guardammo in faccia e con gesti della testa ci dicemmo:
– si sono visti? –
– no, ancora no –

La piazzetta era il luogo di ritrovo estivo di tutto quel piccolo angolo di mondo. La sera tutta un’allegra gioventù si riversava fra le aiuole e i tavolini dei numerosi bar, gelaterie e pizzerie al taglio. Era una piazza di forma quadrata, alquanto grande, chiusa al traffico e brulicava di gente, famiglie, passeggini, ragazze e ragazzi in piena tempesta ormonale.

Lorenzo ruppe il ghiaccio:
“Allora oggi com’è andata?”
“Abbiamo pareggiato” disse Elio “ma per come abbiamo rischiato le tibie è andata pure bene”
Intervenne Batman “ragà scusatemi, io ne ho parate diverse ma quelli entravano a gamba tesa, l’arbitro non fischiava...”
“Ma scherzi!? Non ti preoccupare, sei stato una diga, come sempre, se non c’eri tu finiva dieci a tre per loro...” fece Andrea
“Eccoli” disse Riccardo
Dal fondo di una delle strade che si immettevano sulla piazzetta stavano arrivando, al gran completo. Il frigorifero al centro ed intorno tutta la squadra con altri amici, erano almeno una decina. Ci potevano ridurre in poltiglia con una mano sola. L’orco aveva cambiato body, adesso indossava una Lacoste ìcs-ìcs-ìcs-elle color mattone che gli aderiva come un guanto.
Arrivarono di fronte a noi. Avevamo smesso di respirare già da quando erano a cinque metri.
L’orco puntò il dito contro di me e attaccò con il suo vocione ruvido:
“Mi hann dètt' che fai dei rutti potenti. Qua non mi ha mai battùt' nessùn'. Ti devo sfidare!”
Lo guardai inebetito, mi sentii il sangue che mi si scioglieva lungo il corpo, riacquistavo calore e vita. ... Cosa aveva detto?
“Scusa, ... cosa? ... Una sfida?! ... ma...”
“Hai capìt' benìssim'. Io c’ho un nòm' da difèndr'. Non mi possono arrivàr' voci che tu fai i rutt' più fòrt' di me! Capìt'?”
Non ci potevo credere. Forse una delle sere precedenti, quando ero ubriaco uscito da una festa avevo tirato giù un do di petto di quelli tosti e qualcuno di loro mi aveva sentito...
“Ma io mi vergogno... e poi mica li faccio a comando, ... vi siete sbagliati... Guarda, sei più bravo tu... sicuramente...”
“Non ci siamo sbagliàt'” disse un altro “ti abbiàm' sentìt' due sere fa alla festa che ruggivi com' nù liòne!”
Lo sapevo cazzo, la festa, la tequila e tutto il resto...
“... vabbè...” dissi rassegnato “… e quindi?”
“Andiàm' ai tavoli del bar da Gino. Prendiamo una birra e chi perde paga da bèr’ a tùtt'... ”
Lessi chiaramente nel suo sguardo l’assenza dell’opzione – rifiuto – ed in ogni caso rispetto alla cofanata di pugni che pensavo di dover portare a casa era andata pure di lusso, avrei pagato da bere, poco male. Anzi, molto volentieri! I miei amici se lo meritavano pure, erano venuti verso il patibolo a testa alta, per starmi vicino. La tensione si stemperò, Lorenzo, Claudio, Elio, ridevano e si davano pacche sulle spalle. Avevano temuto tutti il peggio. Pericolo scampato. Andammo verso il bar. Pasquale si avvicinò e disse a bassa voce:
“Guarda che lo puoi battere!”
“Ma che stai dicendo, sei impazzito?” risposi
“Ormai siamo in ballo e balliamo!” sorrise
L’orco si era seduto a un tavolo, qualcuno aveva portato due bottiglie piccole di birra ghiacciata. Io mi accomodai di fronte a lui. Un cerchio intorno a noi. Mi sentivo tanto Silvester Stallone alla finalissima di braccio di ferro. In testa mi rimbombavano le parole di Pasquale ...
– ormai siamo in ballo... lo puoi battere –
Svuotammo ognuno la propria bottiglietta. L’orco fece un gesto cavalleresco con la mano ed il capo come per dire – comincia tu –
Avevo tracannato tutto d’un fiato la birrozza, ero a stomaco vuoto, avevo accumulato tensione per almeno quattro ore e comunque nel mio piccolo potevo vantare una discreta potenza di fuoco. Lo guardai negli occhi, ingoiai dell’altra aria, un paio di volte, poi tirai fuori il barrito dell'elefante indiano in calore. Mi sembrò che gli si mossero anche un po’ i capelli.
Si alzò in piedi di scatto, sollevò la mano e disse:
“Basta cumpà, a’ vìntu”.
di Giuseppe Gatto

martedì 15 aprile 2008

ANNA PER SEMPRE (di G. Gatto)


Ore 09:00
- “Quando ti fai il caffè potresti pulire la macchinetta per favore?”
- “Si Anna, hai ragione, …scusa mi sono distratto … Comunque buongiorno eh!”
- “Ti distrai un po’ troppo spesso! (alza la voce) E’ che a te ti frega solo delle cose tue. Quando è stata l’ultima volta che hai portato giù la spazzatura? E la spesa? Da quando è che non fai la spesa?”
- “Senti, per favore, (allarga le braccia) non ho pulito la macchinetta del caffè (alza la voce anche lui) ma ora non attaccare la solita solfa. E’ sabato mattina. Ti prego! Ogni week end la stessa battaglia!”
- “Solo perché gli altri giorni ti vedo poco…” (voce molto avvilita)
- “Vabbè, ciao, io esco. Ci vediamo per pranzo”
- “Io vado a mangiare da mamma, vieni pure tu?”
- “No, ti prego! Dai tuoi no, ci andiamo pure domani! … Passo a prenderti dopo pranzo, andiamo a fare la spesa assieme, ok?”
- “… (lunga pausa) … si, vabbè. Ma tu ora dove vai?”
- “Non cominciare! (molto seccato) Mi vedo con Ugo, te lo avevo detto! Devo aiutarlo a montare il pergolato...”
- “Me ne ero dimenticata, scusa… (sospiro) ci vediamo verso le tre”

Ore 18:00
- “Pronto?”
- “Laura, amore, sono io”
- “Ciao anima mia. Stamattina sei stato fantastico…”
- “Laura, senti …” (lunga pausa)
- “Cosa c’è? … Ti sento strano. Tutto bene?!”
- “Anna… (pausa) Anna è morta”
- “Tua moglie?!”
- “Si, (seccato) quante Anne conosci?”
- “Oddio!!! (scoppia a piangere) L’hai, … l’hai uccisa tu?”
- “Ma che dici, sei pazza?! E’ stato un … si, un colpo di fortuna. Eravamo andati al supermercato. Un’auto l’ha investita, davanti i miei occhi. E’ morta sul colpo, non ha sofferto.”
- “Mioddio come sei cinico! (alza la voce e piange ancora più forte) Sei un mostro! Mi fai paura!”

- “Ma ora siamo liberi, capisci? Finalmente liberi! Di amarci, di essere felici, … è quello che abbiamo sempre desiderato!”
- “… Stronzo! (urla forte) Sei disgustoso! Mi fai schifo! Io desideravo che tu la lasciassi, … non che morisse!”
- “Beh, (con voce bassa e pacata) mi ha lasciato lei... Per sempre”

di Giuseppe Gatto

racconti e storie...

martedì 1 aprile 2008

L'OROLOGIO PERFETTO (di G. Gatto)


Amilcare scappava con gli occhi terrorizzati… Era inseguito. Era chiaro che stavano cercando proprio lui. Si trovava nel giardino immenso di una sorta di reggia. Un palazzo maestoso come quelli che si vedono nei film. Stava accucciato in mutande e canottiera, quella classica senza maniche e calzini corti bianchi ai piedi. Magro, piccolo di corporatura, sulla cinquantina, pochi capelli in testa e quasi del tutto bianchi.
Si era nascosto dietro un’enorme vaso di pietra a forma di ananas al cui interno troneggiava una splendida chicas. Dei fari lo illuminarono.
“Eccolo!” gridò un uomo con un robusto rottweiler al guinzaglio.
– Mi hanno visto! – sobbalzò. Si voltò e cominciò a correre. Sentiva alle sue spalle grida, concitazione, i latrati dei cani. Ma cosa ci faceva lì? Pensò. Cos’era quel posto? Entrò nel palazzo da una grande porta finestra che affacciava sulla corte, si ritrovò in un imponente salone, molto luminoso, con i soffitti alti almeno dieci metri, pieni di stucchi dorati, da cui pendevano smisurati lampadari di cristallo. Alle pareti specchi giganteschi con cornici di legno intarsiato, magnifici quadri e tutto intorno divani di legno rivestiti di velluto bordeaux stile Luigi XVI. Continuò a correre goffamente e scivolando a tratti sul pavimento di marmo bianco lucido. Non era mai stato uno sportivo. Attraversò in diagonale il sontuoso salone ed uscì da un’altra porta finestra che dava su un lungo balcone che circondava tutto quel lato della sala.
Li aveva ormai addosso, alle sue spalle sentiva il respiro affannato e rabbioso dei cani. Vide fuori dal cornicione della balconata il bordo di una piscina olimpionica, proprio lì, ad un metro. Non era possibile. Non poteva essere possibile! Non ebbe il tempo di porsi domande, con un salto che stupì lui stesso si tuffò in avanti direttamente dal pavimento del balcone, sfiorando con la pancia il corrimano ed entrò in acqua perfettamente di testa. A metà della corsia uno. Cominciò a dare vigorose bracciate, vedeva il bordo corto della piscina non lontano. Due bracciate e un respiro, due bracciate e un respiro. Ma dove aveva imparato a nuotare così bene? Si chiese. Arrivò a toccare il limite del rettangolo d’acqua e la folla esplose in un lungo e fragoroso applauso. Aveva vinto. Si guardò intorno incredulo, il colossale palazzo era scomparso. Era finito nel bel mezzo di una competizione di nuoto. Intorno vedeva gradinate piene di folla, colori, le telecamere della TV…
Un elegante signore gli si avvicinò con il microfono in mano:
“E’ contento ragioniere?”
Lui molto confuso fece cenno di si con la testa. Salì sul gradino più alto del podio con ancora addosso canottiera, mutande e calzini fradici, al suo fianco due ragazzoni in tutina nera con cuffia e occhialini, che lo sovrastavano per altezza e volume, lo guardavano con rabbia.
Una splendida donna con i capelli vaporosi, l’abito rosso stretto attorno alle curve pericolose ed un vistoso decoltè gli mise la medaglia d’oro al collo. In quello stesso istante si svegliò di soprassalto. Guardò la sveglia: le 6:59. Con uno scatto allungò il braccio e la spense, sarebbe suonata alle 7:00 in punto. Sorrise. Era felice come una pasqua. Ricordava il sogno perfettamente. Gli succedeva sempre così quando si svegliava nel mezzo di un sogno, ne ricordava i particolari, i rumori, le immagini, persino gli odori, le sensazioni. Tutto.
– Ma perché stavo scappando? –
L’immagine più bella, quella che lo faceva sorridere felice era il salto in piena corsa direttamente dentro la piscina, come attraverso una finestra spazio-temporale che gli aveva fatto cambiare scena e dimensione. E poi era stato un gesto atletico notevole. Si toccò il pigiama quasi stupendosi che fosse asciutto. Impiegò qualche minuto per tornare pienamente alla realtà. Sentiva i muscoli quasi stanchi per la corsa e la nuotata. Si stiracchiò proprio come a ritemprare il corpo dopo lo sforzo e istintivamente portò la mano sinistra al petto a cercare la medaglia. Niente medaglia. Ma era felice uguale perché grazie al sogno ed al risveglio improvviso aveva fregato la sveglia. Amilcare era uno preciso, meticoloso. E l’idea che si era svegliato pochi secondi prima della sveglia lo galvanizzava.
“Sarà una magnifica giornata” disse.
Si lavò, fece colazione con il latte tiepido macchiato di orzo e due biscotti al burro, indossò il suo vestito grigio topo a righe verticali sopra la camicia bianca ed un maglione a girocollo dello stesso grigio del vestito. Inforcò i piccoli occhiali tondi, mise l’impermeabile, prese l’ombrello, anche se fuori era una bella giornata e si avviò a piedi in ufficio.
Timbrò il cartellino alle 8:00 precise e sorrise di nuovo. Era arrivato puntuale in ufficio senza aumentare o diminuire la sua andatura, senza pensarci e senza mai guardare l’orologio al polso, un vecchio Lorenz d’oro a carica manuale con cinturino di pelle marrone. Riuscire ad essere più preciso degli orari che scandivano la sua giornata lo rendeva estremamente soddisfatto.
“Buongiorno ragioniere”
“Buongiorno Signora Marchini”
E nel salutarla indugiò un tantino sulla generosa scollatura che gli ricordava quella dell’avvenente ragazza della premiazione.
“Salve Pestalozzi”
“Buongiorno Commendatore” accompagnò il saluto al titolare della ditta con un lieve inchino di deferenza, poi il Ragionier Amilcare Pestalozzi prese posto alla sua scrivania.
Infilò la giacca sulla stampella di legno e posò questa sull’appendiabiti. Aprì i suoi archivi e cominciò a lavorare sulla contabilità: fatture, bolle, libro mastro, brogliacci. Nella mano destra la matita e la sinistra a digitare vorticosamente numeri, somme, sottrazioni con la calcolatrice elettrica che emetteva dei suoni ritmati ad ogni calcolo stampando e sputando fuori il relativo conteggio sul rotolo di carta. Il ritmo della calcolatrice creava quasi un sottofondo musicale. La velocità con cui digitava i numeri senza sbagliare mai cifra aveva del miracoloso. Aveva ormai perfettamente memorizzato la disposizione e la distanza dei tasti, le sue dita si muovevano magicamente da sole.
Dopo alcune ore tirò su la testa, mosse il collo per stirare i muscoli e si girò di colpo per guardare l’orologio alla parete. “… ne ero sicuro” mormorò fra sé e sé “le undici in punto. L’ho fregato di nuovo”, questa surreale mania della competizione con gli orologi e lo scorrere stesso del tempo stava diventando sempre più patologica. Si alzò, come sempre a quell’ora, andò in bagno e dopo scambiò due chiacchiere con la Sig.ra Marchini, sempre inciampando con gli occhi più del dovuto sulla sua morbida e ampia scollatura. Poi tornò al suo posto.
A pranzo anticipò l’orologio di due minuti ma era tranquillo in quanto convinto che un piccolo scarto di due, anche tre minuti non inficiava i suoi brillanti risultati di orologio vivente.
“Perfetto” si disse “sono un orologio perfetto”. Al bar consumò come al solito un tramezzino, che poteva al massimo variare fra un “carciofi e mozzarella” e un “mozzarella e prosciutto cotto” con qualche divagazione a volte su “tonno e pomodoro” e bevve il suo solito chinotto. Poi il caffé d’orzo, la passeggiata ai giardini ed il ritorno alla scrivania. Alle 14:30 spaccate.
“Che caldo!” pensò ad alta voce “e che luce accecante!” si guardò intorno: una spiaggia meravigliosa, una sabbia bianca, fine e impalpabile come cipria che non restava attaccata alla pelle ed alle mani, fresca, nonostante un caldo afoso che sembrava penetrare anche nei polmoni. Si spostò di pochi metri, all’ombra di una palma, si stese sulla schiena e guardò alcuni raggi di sole, quasi dei lampi, che penetravano in diagonale attraverso le foglie della palma mosse leggermente dalla brezza. Intorno a lui il verso degli uccelli ed il suono lieve della risacca, non si percepiva altro. “Sono su un’isola!” esclamò Amilcare “Sembra di essere in paradiso… Ma io questo posto l’ho già visto! Ah, ecco...” gli si accese la lampadina “...il poster gigante dell’agenzia viaggi qui vicino, quella di fianco al bar…”. Sul bagnasciuga incedeva uno splendido airone, leggiadro ed elegante, che poi spiccò dolcemente il volo. Si alzò e si diresse verso l’acqua, incredibilmente azzurra con sfumature blu, verde smeraldo e cobalto. Solo allora notò poco lontano un ragazzo di carnagione olivastra, occhi scuri e capelli neri, con un pareo colorato in vita che stava sistemando dei pesci in una cesta, e sorrideva. Poi sparì nella fitta vegetazione.
– Certo lui non ha bisogno di orologi! – Pensò Amilcare.
Tutto intorno i colori erano estremamente vivi, accesi ed anche i profumi più intensi e forti di quelli a lui noti.
Si tuffò in quel mare piatto e calmo come uno stagno d’argento, fece alcune bracciate e pensò: – dio che giorno perfetto! – poi si lasciò andare, pancia all’aria e si fece trasportare dalla tenue corrente galleggiando e facendo il morto: – … il morto?… Oddio, non è che sono morto?!? – ripeté dentro la sua testa e si rimise immediatamente in posizione retta. Ora si guardava nuovamente intorno: c’era solo lui e se quello non era il paradiso effettivamente gli somigliava molto!
“Pestalozzi! Pestalozzi!”
Venne scosso sulla spalla. Si svegliò.
“… Cavaliere, anche lei qui? … oh ma… oddio! … Devo essermi addormentato! … Mi scusi, … non mi è mai successo!”
Vicino a lui il titolare della ditta, il Cavalier Commendator Lo Presti, la Signora Marchini ed il fattorino con ancora le buste ed i pacchi in mano. Era crollato con il capo chino sulle proprie braccia conserte sulla scrivania senza nemmeno essersi levato la giacca.
“Sta bene Pestalozzi? Ci eravamo preoccupati!”
“Sto bene, … sto bene, … devo aver dormito male stanotte, … un colpo di sonno. Chiedo umilmente scusa, davvero… Sono mortificato”
“Ma non si preoccupi, non stia a scusarsi, piuttosto è sicuro di sentirsi bene? Vuole che la faccio accompagnare a casa?”
“No, no, grazie, ora è tutto a posto. Vado a sciacquarmi la faccia e ritorno”
Intanto la scollatura della Signora Marchini si era chinata verso di lui ed aveva detto: “Le ho portato dell’acqua!”. Bevve avidamente.
– Ma cosa mi è successo? Venti anni di onorato servizio e mi addormento alla scrivania! Non mi era mai successa una cosa simile! – continuava il dialogo con se stesso – E poi questo sogno dell’isola... Stanotte la piscina, oggi il mare, e che mare! Cosa vorrà dire? –
Si lavò il viso e tornò alle sue carte ed alla sua calcolatrice. Tra una somma ed una moltiplicazione continuava a rivedere quel paradiso terrestre. Ma poteva esistere davvero? Doveva tornarci, cioè… andarci assolutamente.
– Quando esco passo dall’agenzia viaggi – sentenziò.
Dopo diverse ore comparve nuovamente quello strano sorriso sul suo volto, ripose la matita, spense la calcolatrice e si girò lentamente verso l’orologio, aveva lo stesso sguardo di Clint Eastwood prima del solito duello lungo una di quelle polverose strade del Far West. Ore 17:59: “bang” fece con il dito indice della mano destra puntando l’orologio a parete a mò di pistola. Mancava solo il sottofondo della musica di Ennio Morricone.
Indossò giacca e impermeabile, salutò ed uscì quasi di corsa diretto all’agenzia. Arrivò, entrò e puntò con l’ombrello chiuso il grande poster alle spalle dell’impiegata.
“Quel posto lì esiste davvero?” chiese perentorio
“Certo che esiste davvero. Sono le Maldive”
“Incredibile! … ma quella sabbia è veramente così bianca? Le palme, il mare turchese che sembra finto, è realmente tutto così?”
“Si, si! Io non ci sono mai stata ma me l’hanno raccontato i clienti. Sono le Maldive. Sono proprio così, anzi tutti mi dicono che sono molto meglio di come le si vede nel poster!”
“Voglio andarci!”
“Ma certo, là è bella stagione tutto l’anno sa! Può andarci quando vuole. Ha già un’idea sul periodo, il tipo di struttura?”
“Guardi, io sono anni che faccio le vacanze a Cesenatico, … no, … non ho nessuna idea precisa… vorrei solo rifare, cioè volevo dire fare il bagno lì, in quel mare”
“Prenda questi cataloghi: ci sono molti villaggi e diverse soluzioni un po’ per tutti i gusti... Faccia una cosa, gli dia un’occhiata, veda un po’ cosa può essere più adatto a lei, cosa le piace di più e poi facciamo assieme qualche ipotesi, va bene?”
“Va benissimo, grazie. Lei è un angelo”
“Ma si figuri è il mio lavoro”
“Oggi è stato un giorno perfetto...”
“Come dice?”
“No, niente, pensavo ad alta voce. Buonasera signorina” e fece un piccolo inchino.
L’impiegata gli sorrise: “Buona serata a lei”.
Amilcare si incamminò verso casa e cominciò a sfogliare uno dei cataloghi. I luoghi delle foto erano proprio come nel sogno, gli sembrava nettamente di esserci già stato. E voleva tornarci al più presto. Sfogliò ancora e gli venne la pelle d’oca per l’emozione: una foto a doppia pagina con una palma sulla destra, dolcemente chinata verso il mare, la spiaggia bianca, la luce accecante, il mare di mille sfumature ed un airone che passeggiava sul bagnasciuga…
La sua isola!
Semaforo pedonale verde, attraversò la strada. Si fermo sul marciapiede centrale.

“Fate largo, sono un medico”
“Ecco, arriva l’ambulanza” disse un passante
una signora si teneva entrambe le mani sul viso, urlava e piangeva…
“Non l’ho visto, non l’ho visto, … vi giuro che è sbucato fuori all’improvviso!!!”
“Non c’è più nulla da fare” disse il medico scuotendo la testa.

Il semaforo pedonale era diventato rosso ma Amilcare aveva il sorriso dipinto sul volto e le immagini da sogno di quella spiaggia e di quel mare negli occhi, nella mente e strette fra le mani. Dopo una piccola pausa aveva ripreso a camminare, deciso. Non aveva visto che alla sua sinistra stava arrivando silenziosamente e spedito il trentasei. Il tranviere non ebbe nemmeno il tempo di azionare l’avvisatore acustico, il classico dlén-dlén-dlén. Fu un lampo. Il ragioniere venne investito violentemente e sbattuto in terra. Morì sul colpo. Una morte indolore dissero dopo i medici. Istantanea. Il tram era in anticipo di dodici minuti.
di Giuseppe Gatto
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Questo racconto si è classificato al terzo posto al concorso letterario Tifeo Web Narrativa Online 2008 ed ha ricevuto una segnalazione speciale, nei dieci finalisti, al V Concorso Letterario "Il Corto letterario e l'Illustrazione" 2008 organizzato dall'associazione Il Cavedio

giovedì 20 marzo 2008

RACCONTI, RACCONTI BREVI, STORIE di Giuseppe Gatto


Racconti, piccoli racconti, racconti brevi, racconti "corti", piccole storie!!! Per chi ama leggere: racconti brevi, racconti e storie, storie brevi, racconti gialli, storie e racconti, racconti noir, piccole storie, racconti per ridere, racconti comici, racconti umoristici, racconti sulla scuola, racconti sui giovani, storie sull'amicizia, storie di cucina e di sapori, racconti d’amore, racconti sul mondo del lavoro, corti letterari, racconti e storie di Giuseppe Gatto. E ancora: la passione di scrivere, l’amore per la scrittura, scrivere racconti, web tales, blog tales, libri, e-book, storie per sorridere, distrarsi, pensare, emozionarsi. Embrioni di un possibile libro ma anche stupidaggini, idee e pensieri. E per finire: laboratorio di scrittura, esercizi di scrittura, scrittori esordienti, il piacere della lettura, racconti da leggere, scrivere e pubblicare racconti, raccolta di racconti brevi, narrativa, giovane autore (beh, … proprio giovanissimo, no!). Una bacheca per scrivere, essere letto e ricevere critiche, consigli, sberleffi e baci. I commenti sono liberi e graditi.

No, ... non sono impazzito (almeno non adesso!) è che purtroppo i motori di ricerca sono un po’ stupidi, succede che se uno cerca ad esempio “racconti brevi” sul web, questo blog (http://www.giuseppegatto.com/ - racconti e storie di Giuseppe Gatto), che pure ne è pieno, non esce fuori. Perché? Boh! Provo allora pubblicando un post fasullo come questo. Con le magiche paroline all'interno del testo (racconti, storie, etc.). Un post che elenchi in qualche modo cosa c’è in questa scatola virtuale. Vediamo se funziona. Quindi chiedo scusa a chi già mi conosce mentre a tutti gli altri vorrei dire:

“Sei capitato qui (finalmente direi!) cercando dei racconti? Ti piace leggere? Sei nel posto giusto (spero!), ho pubblicato già una buona dozzina di storie brevi. Secondo mia moglie, ... e non solo ... piuttosto belli. Ogni mese ne inserisco un paio di nuovi (... quando trovo il tempo di scriverli! :-). Puoi sfogliare l’archivio racconti qui a lato (o qui sotto). Grazie della visita e buona lettura. Se poi i racconti ti piacciono spargi la voce…”

Se vuoi farti anche quattro sane risate clicca pure sul blog carbonaro “Pensa se avrei studiato!!!” qui in alto a destra!


di seguito i link ai racconti pubblicati fino ad oggi:

LA PRIMA VOLTA (giallo, povertà, sud, violenza)
1994 DIPLOMA DI MATURITA' (comico, scuola, esami, giovani)
LINEA TRE (amore, Roma, tram)
L'ELEFANTE BLU (giallo, prostituzione, Roma)
LA TRATTORIA (storie di cucina, Roma, nostalgia)
CAFFE' CORRETTO (comico, lavoro)
RAVIOLO CARPIATO. Il vestito non basta (comico, ristorante, coppia)
ESTATE ROMANA (giallo, giovani, viaggio, Roma)
CONDOM ALLA FRAGOLA (comico, viaggio, Bologna, internet)
IL POLIZIOTTO (giallo, noir, pistola, violenza)
LA SEPPIA DIVENTO' UNA MELANZANA (comico, scuola, giovani, sud)
L'IMPORTANTE E' CHE TU STIA BENE (lavoro, mobbing, ipocrisia)
ANNA PER SEMPRE (racconto flash)
SPALLATA MUSCOLARE (comico, giovani, vacanze estive)
MILENA (amore)
CHIODI (giallo)
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Giuseppe Gatto

domenica 16 marzo 2008

L'IMPORTANTE E' CHE TU STIA BENE (di G. Gatto)


Ferdinando Peretti è il responsabile di un gruppo di venditori in una società di telefonia mobile, filiale di Milano. E’ costretto ad assentarsi per quasi sei mesi per dei seri motivi di salute. Prima di rientrare chiede di poter parlare con il Direttore della filiale, il Dottor Emilio Marzioni, e con il Direttore del Personale, Dottor Armando Calzavacca.
Siamo alla fine di febbraio.
Dr. Marzioni - "Ciao Ferdinando, allora? Cosa è successo? Come stai?"
Ferdinando - "Ora va tutto bene, grazie, ho avuto un po’ di problemi ... piuttosto gravi, diciamo. Certo lo stress sul lavoro non mi ha aiutato. Però sono pronto a ricominciare. Fra un paio di settimane rientro."
Dr. M. - "Guarda che io ho bisogno della tua massima disponibilità, lo capisci? Mi serviresti da ieri per la verità! Ti voglio al centoventipercento! Perché non rientri subito?"
F.- "Sto finendo una terapia, è questione di pochi giorni. Lo sa, io non mi sono mai tirato indietro, ho sempre viaggiato a ritmi forsennati, ... la voglia di lavorare c'è... Certo correre quattordici ore al giorno, sempre in giro per l'Italia, ... non so se riuscirò a riprendere fin da subito lo stesso passo...”
Dr. M. - "Questo un po’ mi preoccupa. Comunque la filiale è grande, una soluzione la troveremo. Lasciami parlare con Calzavacca, ci sono settori dove forse avresti meno pressioni. L'importante è che ora tu stia meglio e che torni fra noi. Lo dico per te!"
F. - "Grazie direttore. A presto!"
Stretta di mano.

Marzo. Sono trascorsi dieci giorni, Ferdinando incontra il Direttore del Personale.
Dr. Calzavacca - "Allora, come va?"
Ferdinando - "Bene, ora è tutto a posto, grazie."
Dr. C. - "Si, ho sentito Marzioni, sono contento. Senti Ferdinando, tu capisci che, ... dopo sei mesi, ... non possiamo lasciarti nel tuo ruolo. Non va bene. L'azienda deve dare dei segnali precisi! Sei stato via tanto!"
F. - "Ma, ... veramente, … non stavo bene!"
Dr. C. - "Eeeh lo so, lo so, ma nel tuo ruolo... uno viene a lavorare pure con la febbre o con il polso rotto, … sai come funziona!"
F. - "mmhm ... io non potevo davvero fare diversamente... e comunque sono pronto a riprendere il mio posto. Certo non voglio nemmeno creare problemi alla società, ... sono disponibile anche a valutare altre opportunità. Non voglio litigare"
Dr. C. - "ma magari, ... visto i problemi che hai avuto, ... forse una situazione con meno pressioni potrebbe esserti più congeniale. Lasciami un mese o due per valutare un po’ di cose e ne riparliamo. Intanto potresti prendere delle ferie arretrate"
F. - "no, grazie. Non ne ho bisogno. Preferisco rientrare fra una settimana, come avevo già comunicato, tanto di cose da fare ce n’è a iosa!"
Dr. C. - "A presto allora, l’importante è che tu stia bene"
Stretta di mano.

Marzo, venti giorni dopo il primo colloquio, Ferdinando Peretti rientra. Incontra il Dr. Marzioni alle macchinette del caffé.
Ferdinando - "Salve, come va?"
Dr. Marzioni - "Ah, eccoti! Bentornato. Ho dato disposizioni di coinvolgerti subito su un paio di progetti a cui tengo molto. Per adesso il tuo team va avanti in autonomia, tu non te ne occupi. Ho anche parlato con il direttore del personale e gli ho detto: - Armando, Peretti è un caro ragazzo, ha avuto delle difficoltà ma ha sempre lavorato sodo. Ora è in una situazione particolare, dobbiamo aiutarlo - proprio così gli ho detto – Aiutalo, ... va assolutamente aiutato! – "
E dicendo così gli dà un’affettuosa pacca sulla spalla.
F. - "la ringrazio direttore, ... grazie. E buona giornata"
Stretta di mano.

Fine di marzo, Ferdinando incontra di nuovo il Dr. Armando Calzavacca.
Dr. Calzavacca - "Ciao Ferdinando, la situazione si sta leggermente complicando. Qui su Milano sto esplorando varie soluzioni ma non c'è nessun ruolo in linea con il tuo profilo, le tue esperienze. Tu sei un funzionario! Sai bene che questa è una filiale. La direzione è a Roma e la sede operativa più importante a Palermo. Io avrei modo di sistemarti molto meglio in una di queste due città"
Ferdinando - "io, ... io veramente vorrei rimanere a Milano, credo sia anche un mio diritto, qui ho la famiglia, i miei parenti, gli amici. Abbiamo un bimbo piccolo. Almeno per i prossimi due anni non me la sento di affrontare un trasferimento e né posso fare avanti e indietro!"
Dr. C. - "Beh, questo rende le cose un po’ più complesse. Vedi, a Roma o Palermo avrei decine di soluzioni ... mentre qui non ne ho nessuna, al momento"
F. - "... allora mi rimetto a fare il lavoro di prima!!"
Dr. C. "Eeeh non è così semplice. Le esigenze aziendali cambiano, stiamo rivedendo l’organigramma... Lasciami ancora un mese di tempo al massimo…"
F. - "Io l’ho già detto, non voglio litigare, ma se mi trasferite mi create un grosso problema…"
Dr. C. "non ti preoccupare vedrai che si risolve tutto. Ci aggiorniamo, ok?"
F. - "va bene. Arrivederci"
Stretta di mano.

Febbraio. Un passo indietro. Sono trascorsi due giorni dal primo colloquio fra Ferdinando e il Dottor Emilio Marzioni. Quest'ultimo incontra a Roma il Dottor Armando Calzavacca.
Dr. Marzioni - "Armando, vedi che sta per tornare quello stronzo di Peretti. Ci ho parlato qualche giorno fa"
Dr. Calzavacca - "Che faccia di culo! Così, … come se niente fosse?!"
Dr. M. - "Già! Guarda, non può assolutamente passare il concetto che uno sta via dei mesi, torna e ritrova la sua scrivania. Mica è a casa sua che fa come cazzo gli pare! Sei d'accordo?"
Dr. C. - "Sfondi una porta aperta! Ma stiamo scherzando?!? Tra l’altro creerebbe un precedente pericoloso..."
Dr. M. - "A me uno così non serve. Toglimelo dalle palle. Fallo f-u-o-r-i. Io ho già messo uno di mia fiducia al suo posto, ufficialmente con un ruolo diverso, ... chiaro. E sta andando benissimo"
A. C. - "Ok. Consideralo già fatto"
Stretta di mano.

di Giuseppe Gatto

mercoledì 27 febbraio 2008

LA SEPPIA DIVENTO' UNA MELANZANA (di G. Gatto)


“Marceeellooo...”
Ore 7.30, era cominciato il rito del disgelo.
“Alzati, … è tardi!”
Era sempre tardi per lei. E non era più credibile. Alzò rumorosamente le tapparelle continuando a sgolarsi:
“Foorzaaa!!!”
Marcello grugnì con la bocca incollata da vinavil e segatura, o almeno così la sentiva.
– Non può essere tardi, non saranno nemmeno le otto... – pensò al rallentatore.
La sveglia automatica vocale intanto continuava inesorabile ogni tre minuti
“Marceeellooo!!!”
Ma il ragazzo doveva affrontare una cosa mica da ridere. Il ritorno alla vita dallo stato di ibernazione. Il ritorno a fatica ad una temperatura normale. E’ così che si sentiva Marcello De Bartolo, detto Etabeta, tutte le sante mattine che Manitù metteva in terra. Non riusciva a svegliarsi. Continuò ad entrare ed uscire dal sonno e dal sogno. Sognava che era sveglio e che si stava alzando o sognava che non riusciva a svegliarsi. O sognava che si era alzato ma poi si era ributtato sotto le coperte o persino che era già vestito e per strada.
Muscoli, nervi e tendini non rispondevano ai comandi. Era l’effetto della criostasi. Come se durante la notte degli alieni gli avessero nebulizzato addosso ghiaccio secco e azoto liquido. Una strana statua di ghiaccio morbida. Per riprendere lentamente contatto con la vita ci metteva almeno trenta minuti di travagliata sofferenza. Sentiva riaffiorare i suoi sensi piano, uno alla volta, ricominciava a udire, anche se in modo piuttosto ovattato e con un ronzio che andava e veniva, sentiva il sangue che riprendeva a scorrere nelle vene ma aveva braccia e gambe ancora troppo pesanti per riuscire a muoverle. Formicolio alle estremità. Un formicaio intero lo stava assalendo. Si sentiva debolissimo e semi-paralizzato. La capacità di riuscire a muovere correttamente la bocca ed articolare dei suoni diversi dai grugniti era uno degli ultimi stadi del ritorno alla realtà. Anche la vista era rallentata e sfocata. Poi a disgelo completato ci vedeva benissimo. Come un falco.
“La sera non ti coricheresti mai e la mattina non ti sveglieresti mai!” erano le parole del nonno che venivano anticipate dal suono del suo mazzo di chiavi che portava sempre in mano e muoveva come una campanella. Arrivava a dare manforte alla mamma.
Non era colpa sua. Marcello, per una misteriosa alchimia, viveva perfettamente allineato con il fuso orario di New York. La notte era in piena attività. Scoppiettante. La mattina alle sette era la notte fonda di una persona normale. Viveva sei ore indietro.
Cominciò a scorgere la luce che entrava dalla finestra, vide la mamma che muoveva le labbra come un pesce. La vedeva alla moviola ed ancora non poteva sentirla, era ancora una figura irreale ed ectoplasmatica.
La lotta con Morfeo sortì finalmente effetto. Grazie al cocktail di urla reiterate e luce accecante del sole alle 8.15 Marcello si alzò. Aveva l’occhio e l’espressione vispa di una carpa di lago pescata da diverse ore.
Il tempo stringeva ma era tutto calcolato al minuto. Si tuffò sui vestiti buttati la sera prima per la stanza. Ci si infilò letteralmente dentro. Si sciacquò in modo superficiale la faccia ignorando la spremuta di arancia che la mamma gli preparava con amore tutte le mattine e che lui non aveva mai bevuto, ingurgitò al volo una zuppa semi-solida e tiepidina di latte e biscotti, prese lo zaino e si lanciò giù per le scale.
- 8.25, fra cinque minuti suona la prima campanella -
Doveva ancora attraversare il campo di pannocchie, la ferrovia, seminare il solito branco di cani randagi… C’era una strada più comoda ma questa scorciatoia gli permetteva di guadagnare sette preziosissimi minuti.
- Le 8.30, fra cinque minuti suona la seconda campanella, poi chiudono il cancello... -
Etabeta era sudato, con il fiatone, tutte le mattine la stessa corsa furibonda. 8.39, il cancello si stava chiudendo, riuscì ad arrivare a bomba sull’anta, mise dentro un piede per bloccarla, il solito scambio di complimenti sulle rispettive mamme con Caronte, il bidello di guardia all’ingresso, e via in aula.
Una scuola di provincia a Montebasso, un paesetto nemmeno tanto piccolo affogato in una vallata circondata dalle montagne della Sila e del Pollino. Un piccolo miracolo climatico: caldo afoso e umido l’estate, da togliere il respiro, con zanzare grosse e aggressive come pterodattili, freddo glaciale e umido l’inverno. Uno dei pochi posti in Calabria dove faceva capolino persino la nebbia.
La prof stava già spiegando. Nel corridoio il barrito di un elefante. Era sempre lui, sedici anni di beata allegria e sfrontatezza. Magro, capelli lunghi e mossi, occhi azzurri. Il risveglio era ormai completo.
“Il signore è arrivato? Se continui a fare questo chiasso ed arrivare sempre in ritardo te ne faccio pentire!”
“Mi scusi Professoré…” e dicendo questo, con la frase ancora a mezz’aria vomitò in mezzo ai banchi. La prof, una povera semplice mamma di famiglia si sentì mancare e vomitò anche lei. Etabeta lo faceva apposta. Così, all’impronta, senza premeditazione. Aveva esagerato con la birra la sera prima e la corsa verso la scuola aveva creato un certo conflitto fra i residui del luppolo e lo zuppone latte&biscotti. Fuori la classe il colpo di improvvisazione del tutto inutile e gratuito, due dita in gola, il primo conato, era entrato ed aveva scodellato il regalo caldo caldo alla platea. Il parapiglia era poi durato una buona mezz’ora. Luigi, il bidello zoppo e obeso come un tricheco, aveva portato un tè alla prof che lentamente si era ripresa. Lui aveva imbastito tutta una storia che si era sentito male, si scusava molto, non gli era mai successo…
E la prima ora di storia era praticamente sfangata.

Matematica. Arrivò il professor Sartorio, un uomo vicino alla pensione che avrebbe volentieri dato fuoco alla scuola ed agli alunni. Soprattutto agli alunni. Completamente sfiancato dalla vita e dalla routine. Come tutte le mattine aprì il giornale e lo sfogliò per dieci, quindici minuti. De Bartolo e Barsazzi cominciarono una competizione sputando delle minuscole palline di chewingum con la bic priva del pennino. La gara consisteva nel colpire le chiome delle ragazze più antipatiche. Cioè tutte! La bic era un’arma strategica non convenzionale condannata dalla convenzione di Ginevra. Poco rumorosa, facilmente occultabile in una mano, rapida ed inesorabile come un fucile di precisione. Ravizza e Laporelli, altri due nullafacenti storici, misuravano invece la loro abilità in esperimenti di pirotecnica minimalista. Con alcuni cerini e la carta stagnola del pacchetto di sigarette confezionavano dei minuscoli razzi a quattro piedini che accesi compivano una parabola di un paio di metri, una simpatica fumata bianca, il classico rumore di cerino acceso ed una puzza acre e persistente. L’abilità stava nel beccare, con un pizzico di fortuna, un lembo di pelle, un colletto di camicia, provocando piccole ustioni ed un po’ di innocuo panico in aula.
Alfieri e Tecchiardi stavano cantando Pino Daniele, ma non a livello dilettantistico. Per l’esattezza loro non cantavano e basta facevano proprio l’orchestra, la base musicale e tutto. Uno faceva “taps-tan-taa-daaa, ... taps-tan-taa-daaa” e l’altro “yes-I-know… my-way…”, batteria, chitarra e sassofono… riuscivano ad esibirsi con la bocca semichiusa, mentre apparentemente sorridevano di un sorriso ebete. Erano difficilissimi da individuare. Si sentiva la musica, sembrava provenisse da lontano, ma non si capiva, nemmeno guardandoli fissi, che erano loro a cantare. E poi il prof stava pensando ad altro. Finì di leggere il giornale, assegnò alcuni esercizi di algebra aramaica e si allontanò dalla classe.
Si accavallarono piccole tragedie. Britti fu colpito da un razzetto e lanciò un urlo quasi ultrasonico, Matarazzi emetteva invece gridolini isterici perché nella sua folta chioma aveva appena scoperto un allevamento di palline di gomma americana. Scoppiò a piangere. Avrebbe dovuto procedere ad una discreta sfoltita dello scalpo, mentre i due cecchini commentavano:
“Quella già è brutta con i capelli lunghi, chissà domani!”
“Ma zitto, magari migliora!”
Fra la seconda e la terza fila di banchi partì spontaneamente un torneo improvvisato di schiaffo del soldato, variante violenta a doppio schiaffo e doppio colpevole.

Federico Tirollo, il più antipatico della classe, era assente. Uno sfigato da manuale. Un po’ più magro, brutto e allampanato di quel regista horror tanto famoso. La faccia perennemente triste, il volto emaciato. Quando lo vedevi ti veniva da toccarti immediatamente i bargigli!
Probabilmente era ridotto in quello stato anche a causa dei genitori, due isterici nevrotici. La mamma di Tirollo era stata la maestra alle scuole elementari di Etabeta ed essendo molto severa ed esigente mentre il suo alunno era un discolo ancora in erba ma già piuttosto vivace se ne fecero di tutti i colori. A vicenda.
Una volta lo aveva sbattuto fuori dalla classe ma Marcello non si era fatto trovare impreparato ed aveva con sé un grosso sacchetto di biglie, rubate ai grandi magazzini giù in città, che sparse con dovizia per l’ampio corridoio. Quando suonò la campanella della ricreazione successe il finimondo: gambe all’aria, tuffi carpiati, panico, urla e qualche lieve ferito.
Non lo mandò più fuori dalla classe ma lo puniva sempre in modo eclatante. Era nata una forma di competizione, comunque impari visto il ruolo e il potere della maestra. In piedi dietro la lavagna per tutta l’ora, tremende bacchettate con un grosso righello di bachelite sulle nocche delle dita, in ginocchio davanti la cattedra, con i compagni -fetenti!- che gli tiravano di tutto e lei che faceva finta di non vedere. Quella cosa gli rimase particolarmente impressa nella mente. Etabeta l’aveva giurato: “non sarà oggi, non sarà domani, ma prima o poi te le farò pagare tutte!”.
Il fato malvagio e bizzarro fece finire il figlio fesso della maestra cattiva proprio con la vittima prediletta di quest’ultima, diventato intanto uno scaltro capobranco.
Era quindi nata una faida naturale, una vendetta trasversale a oltranza che era rafforzata dal fatto che il povero Tirollo sembrava meritare effettivamente tutte le angherie di cui era vittima. Era un predestinato. Sarebbe stato lo zimbello del gruppo anche senza l’aiuto della mamma. Il classico primo della classe. Non suggeriva mai, non passava mai i compiti, gli appunti, non dava mai una dritta, anzi se poteva, sempre con quella espressione da usuraio malinconico, cercava di danneggiare i compagni. Indossava delle camicie tristissime con degli improbabili maglioncini scollo a vu. La mamma aveva solo peggiorato una situazione già complicata di suo.

Qualche giorno prima c’erano state le elezioni d’istituto: i rappresentanti di classe ed altra roba simile. Camillo Piccolo uno dei fedelissimi della banda era al lavoro in segreteria.
“Eta, guarda qua!”
“Che è?”
“Fogli di carta intestata del Preside, già timbrati. Sono stato tutta la mattina in segreteria”
gli occhi di Marcello brillarono.
“Grande Orso!”
“Ho anche le buste naturalmente” e sollevò le sopracciglia dalla felicità!
Lo chiamavano Orso perché a dispetto del cognome era grande e grosso come un grizzly. Per la verità ricordava più un panda per quanto era buono, un ragazzone dall’espressione tenera.
I due si consultarono rapidamente con Pelorosso, Vespino, Superiàm e MacEnroe. Il plotone al completo o quasi.
“Dai, prepariamo la brutta copia, poi andiamo a casa di Mac e la battiamo a macchina”
Pelorosso si mise all’opera.
“Egregi Signori Tirollo…”
“ok, e fino a qui….”
“… con la presente siete convocati con urgenza da parte del Preside…”
“no, metti – …la scrivente… – “ disse Vespino
“… da parte della scrivente Presidenza dell’Istituto Liceo Scientifico Statale Michelangelo Palleschi. E’ impellente l’esigenza di un approfondito confronto con le S.V. in ordine ad alcuni incresciosi episodi di cui si è reso protagonista lo studente …”
“rafforza, metti – e vostro figlio… - disse Superiàm
“… e Vs. figlio Tirollo Federico. Il nostro personale ha purtroppo accertato che il suddetto Tirollo Federico fa uso sconsiderato di sostanze stupefacenti anche all’interno dell’edificio scolastico e nelle ore deputate alle lezioni e cosa ancor più grave è stato sorpreso nei bagni...”
“no aspetta, bagni è poco aulico” fece Etabeta “metti – gabinetti – … anzi no, scrivi – luoghi di decenza! –”
“ah ah ah ... fantastico, vai, vai...” fecero in coro MacEnroe e Vespino
“... è stato sorpreso nei luoghi di decenza riservati alle donne in atti osceni nei confronti di due studentesse trovate in evidente stato di panico e crisi di pianto.”
“Mi sembra che può andare!” disse Pelorosso guardando con soddisfazione il foglio
“Non è che abbiamo esagerato?” disse Vespino
“Secondo me si mettono pure a ridere, … che scrive così un preside?” fece Orso
“Scrive pure peggio! E’ che non se la possono bere! Quello non tocca nemmeno una sambuca figurati gli stupefacenti! Poi la storia dei cessi con le due smandrappate è proprio pura fantascienza, quello sicuro la patata non l’ha mai vista nemmeno in fotografia!” disse Superiàm.
“Oh, ragazzi, non ci dimentichiamo che la spediamo su carta intestata, con timbro e firma, la busta… Se sono i coglioni che tutti crediamo che siano ci possono pure cascare!” fece Etabeta.
“Io approvo. Diamogli una riletta, una sistemata, prepariamo l’originale ed imbuchiamo” disse risolutivamente MacEnroe.

Era arrivata la lettera. Ecco perché Tirollo era assente.
Non gli bastava che tutte le serate, a qualsiasi ora tornassero a casa i suoi compagni di classe passavano a dare una suonatina al suo citofono.
“Notte ragazzi”
“ciao, oh, chi passa a salutare Tirollo?”
“Vado io, sono di strada”
ogni sera, a mezzanotte, all’una, alle due, il citofono suonava inesorabilmente.
“Secondo me ormai si sono abituati”
“ma magari lo staccano...”
“ho una zia che abita nello stesso palazzo, non si può staccare è di quelli fissi al muro!”
“Allora quando passo gli lascio inzeppato pure uno stecchino…”

Quella iena della mamma a momenti sveniva, Federico aveva provato balbettando a negare tutto, effettivamente non sapeva nemmeno di che stessero parlando! Non gli avevano creduto neppure per un attimo! E quella totale mancanza di fiducia lo aveva destabilizzato. Se lo meritavano quel figlio. E lui si meritava quei genitori. Il seguito si seppe solo più tardi. Dopo un’ora di interrogatorio, di urla, strepiti, minacce di chiuderlo in collegio ed un’altra folta lista di punizioni e maledizioni, dopo vari accenni di svenimenti della mamma che continuava ad alzarsi e ributtarsi sulla poltrona con le mani sulla faccia, il papà rosso di rabbia gli mollò un ceffone da olimpiadi greche. Un gesto atletico di notevole portata. Con quella forza impressa alla rotazione del braccio e la rapidità dell’esecuzione se avesse lanciato un disco o un giavellotto avrebbero percorso una parabola da podio. L’unico risultato fu invece un occhio nero e gonfio, preciso ad una seppia.
I due campioni si presentarono in Presidenza il mattino seguente. Di buon ora. Con il figlio in mezzo a loro che faceva tanto Pinocchio fra i gendarmi. La seppia era diventata intanto una melanzana.

Il preside li ricevette intorno alle dieci, guardò e riguardò la lettera, chiamò la segretaria, fece altre due telefonate, non si capacitava. Non sapeva nulla di quella storia ma la lettera sembrava proprio uscita da lì. Anche i toni erano quelli che lui stesso usava per convocare i genitori e dato che non gli succedeva proprio di rado era andato in confusione. Tirollo era uno che passava inosservato, non lo si notava né nel bene, né nel male. Al Preside sembrò di vederlo quella mattina per la prima volta. Dopo mezz’ora di consultazioni con papà e mamma Tirollo bianchi come cadaveri e nervosissimi, finalmente il Capo del glorioso Istituto Michelangelo Palleschi sentenziò:
“E’ un falso. Questa lettera non l’ho scritta io e nemmeno uno dei miei incaricati. O c’è stato uno scambio di persona un errore nel nominativo del ragazzo, cosa che stiamo verificando, oppure trattasi di abile falso” e dicendo queste ultime parole si abbassò gli occhiali sul naso riguardò la lettera da molto vicino e aggiunse: “la carta intestata sembra proprio la nostra, l’hanno fatta uguale…”
Papà Tirollo scoppiò come un clown-con-la-molla dalla scatola magica. Saltò in piedi rosso come un peperone e cominciò ad inveire contro tutto e tutti
“Questi delinquenti dovete arrestarli! Dovete scoprire chi è stato! E’ una vergogna! Come potete permettere che accadano queste cose! Io non avevo creduto per un solo attimo a questa farsa. Conosco mio figlio! Ma ... si metta nei miei panni, ... una lettera del Preside!!”
E il preside cercava di calmarlo: “ora si calmi, su, è tutto finito, si tratta di un episodio increscioso, uno scherzo di pessimo gusto…”
“Io li ammazzo, li ammazzo tutti!!!”
Anche la mamma riprese colore e passò anche lei all’attacco:
“sono quei bastardi dei compagni di classe, quei grandissimi figli di gran put…”
“signora la prego un po’ di contegno!”
Intanto erano entrati in presidenza la segretaria, due professori, Caronte e un altro bidello
“ma che sta succedendo?” disse un professore
“niente niente, uno spiacevole malinteso…” cercò di minimizzare il Preside ma non lo lasciarono nemmeno finire, il duo Tirollo urlando all’unisono incalzava:
“quei pezzi di merda tutte le notti vengono a citofonare mentre dormiamo!”
“e fanno scherzi al telefono!”
“due mesi fa hanno cacato sullo zerbino! Sono stati loro ne sono sicura!”
“Io li ammaaazzo!”
Non ci fu verso di calmarli. Il preside dovette acconsentire alla richiesta del papà di Federico. Voleva guardare in faccia i compagni di classe del figlio. Giurò al Preside che non avrebbe perso la calma, voleva solo guardarli negli occhi.
“Vede” cerco di convincerlo il Preside “non abbiamo la benché minima prova che siano stati loro. Sulla base di semplici supposizioni non possiamo…”
“Preside, voglio solo dire loro che queste cose non si fanno. Con molta calma. Se il colpevole o i colpevoli non sono in quella classe poco male. Una ramanzina fa sempre bene”
“ma io non posso farla entrare...”
“Preside, la prego! Li voglio solo guardare negli occhi. E’ un fatto educativo…”
A educativo il preside si arrese.

Papà Tirollo entrò in classe proprio nel momento in cui questa sembrava l’arena di un circo al momento dei saluti: tutti gli artisti in pista e l’orchestra in piena attività. Alfieri e Tecchiardi cantavano la Turandot a doppio coro, Britti urlava e si dimenava per l’ustione da razzetto, "... maaailmiomisteroèchiusoinmeeee...", in aria ancora fumo e puzza della breve missione spaziale, "... ilnomemio-nessun-sapràaaa...", la Matarazzi circondata da quattro amiche piangeva i suoi capelli, "... all'albaviiin-ceròoooo...", il torneo mediavale di schiaffo violento del soldato era nel suo clou!
“Sileeeenzio!!! Tutti seduti” urlò il preside che di solito sembrava un lord inglese
“dov’è il professore?”
“Starà passeggiando il cane” disse qualcuno dagli ultimi banchi
“Chi è che fa lo spiritoso?!...”
Papà Tirollo non lo fece nemmeno finire ed attaccò in totale disarmonia con le sue buone intenzioni:
“Siete dei bastardi, dei figli di grandissima…”
“Sig. Tirollo la prego!!!”
“… io vi vengo a prendere a casa vostra uno per uno… Vi rompo il culo!!!” e dicendo questo cercava di divincolarsi dal preside che lo teneva per un braccio per infilarsi fra i banchi e farsi giustizia sommaria da solo… La moglie urlava anche lei e lo tirava per l’altro braccio.
“Signor Tirollo!!!” il preside cercava inutilmente di riprendere il controllo della situazione. Quello sputava bava ed inveiva come una tigre feroce, aveva il volto ormai paonazzo e le vene del collo gonfie e tese che sembravano dover scoppiare da un momento all’altro. Ci volle tutta la buona volontà di Caronte e Gambadilegno, richiamati dal gran baccano, per riuscire a fermarlo. Intanto Federico era rimasto vicino la porta mogio mogio e con la faccia pesta tipo Rocky IV alla fine dell’incontro. Osservò mestamente il padre, che ancora gridava a squarciagola e si dimenava come una tarantola, trascinato di peso verso l’ingresso della scuola con la mamma nella sua consueta crisi isterica che prendeva a borsettate Gambadilegno, a calci Caronte e viceversa.
Rimase lì impassibile. I sei lo guardarono, lui guardò loro. In classe calò un silenzio gelido.
“Certo bello scherzo del cazzo!” mormorò Federico con un filo di voce e gli occhi bassi e si andò a sedere al suo posto, al primo banco.
Per la prima volta forse gli amanuensi e battitori a macchina della falsa lettera provarono per lui un po’ di pena ed un principio di pentimento.
Questo non impedì a quella merda di Barsazzi di colpirlo in piena nuca con l’ultimo proiettile di gomma americana rimasto inesploso nella bic.
di Giuseppe Gatto


Libera 
Università di Alcatraz