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martedì 13 novembre 2007

LA PRIMA VOLTA (di G. Gatto)


Si era svegliato di scatto. Sudato. Soffocando un urlo. Si era ritrovato ancora sotto le lenzuola fino alla vita e seduto nel letto con le braccia rigide a sorreggerlo. Il fiato grosso. Gli sembrava di aver appena affrontato tre piani di scale. Sentiva ancora il peso sul petto. Incubi.
- Strano, … io che non sogno mai! –
Fuori era ancora buio. Salvo guardò la sveglia, led rossi, quattroequarantasei. Led rossi accecanti. Si portò istintivamente il dorso della mano a proteggere gli occhi.
- Mi alzo, tanto ormai non dormo più –
Si mise in piedi piano. Lentamente e in silenzio, senza svegliare i genitori, si vestì ed uscì di casa. Nei suoi sedici anni di vita raramente si era alzato così presto, piuttosto quei colori rarefatti ed irreali che precedono l’alba li aveva visti qualche volta andando a dormire. Lo accolse un freddo frizzante, sopportabile, ma a lui pareva gelido e forse contribuiva a quest’effetto ghiaccio la fronte imperlata di sudore. Mani in tasca, spalle strette, Salvo si avviò con passi veloci ed incerti. Uno strano gambero umano. Camminava in avanti ma dava l’idea che volesse correre esattamente dalla parte opposta. Si morse il labbro inferiore, scosse la testa, sapeva che non poteva tornare indietro.
Non adesso. Aveva bisogno di non voltarsi.
Capelli castani e ricci lunghi alcuni centimetri, occhi scuri come la notte, magro, una peluria sul volto appena accennata che non poteva ancora definirsi barba. Addosso scarpe da tennis, jeans molto vissuti e un giaccone verde da caccia anche se a caccia non c’era mai stato. Lui era un tipo tranquillo, pacifico.
Da piccolo non capiva come facessero i suoi amichetti a divertirsi torturando innocue lucertole. Le prendevano con un cappio fatto con lunghi fili d’erba, le appendevano al ramo di un albero e giocavano a colpirle con le pietre. Lui proprio non riusciva a partecipare a quel gioco. Guardava la povera bestiola, soffriva insieme a lei, provava a farli smettere, poi si allontanava a testa bassa per non dover sopportare il triste spettacolo.
La sua era una famiglia semplice che viveva ai confini della povertà. Il padre faceva il manovale, il lavoro a volte c’era a volte no e quando c’era era spesso in nero, sottopagato, senza garanzie e senza niente. Se Mimmo si faceva male erano fatti suoi. Toccava lavorare anche per persone poco raccomandabili ed attività poco chiare. Doveva spostare mattoni, impastare la calce, non fare e non farsi troppe domande. La mamma era casalinga e domestica a ore per alcune famiglie giù in paese. Non era una vita facile. Una realtà per nulla rara in quel piccolo paesino del sud. Arretratezza economica e sociale fisiologica ed apparentemente ineluttabile. Salvo avrebbe voluto studiare, sognava un futuro diverso ma bisognava anche cominciare a portare qualche soldo a casa. Rendersi utile. Lui, a differenza di altri suoi coetanei, stava diventando adulto molto velocemente. Troppo velocemente.
Una sera a tavola Mimmo gli aveva detto:
- Don Vito ti vuole conoscere, forse è per un lavoro, vacci a parlare -
Lì intorno quasi tutto era di Don Vito.
Così era cominciato tutto.
Era andato a parlarci e da allora erano trascorsi cinque giorni.

Camminò per più di due ore, sembrava vagasse senza una meta ma cercava solo la strada più lunga. Inutile essere lì prima delle otto. Intorno solo campagna e macchie di verde, grigio e marrone. Una campagna brulla, arcigna, dai contorni irregolari, spigolosi. Con quella luce e la leggera foschia i campi ed il cielo a tratti si confondevano. Come i suoi pensieri. Groppo in gola, un nodo che voleva soffocarlo. Si sentì mancare il respiro e contrasse i muscoli delle tempie e del volto per combattere la vista che quasi si annebbiava. Gli girava la testa, proprio come quell’unica volta che era salito mezzo ubriaco sulle montagne russe.
- Voglio scendere - pensò.
Non scese. Non poteva scendere. Non dopo aver dato la sua parola a Don Vito.

Arrivò al vecchio casolare. Entrò in un cortile quadrato di mura bianche con una vecchia fontana al centro, poi dentro un grosso portone di legno, scambiò degli sguardi silenziosi con altre persone. Gli porsero una grossa lama ed una specie di larga tuta da operaio che lui indossò. Qualcuno gli diede una pacca sulla spalla qualcun altro gli fece un leggero cenno del capo.
Era arrivato il momento.
Entrò nell’altro locale, sulla destra. Gli avevano già spiegato tutto. L'odore era fortissimo, gli serrò la gola, trattenne un conato di vomito. Fece un respiro profondo, serrò gli occhi, strinse la mano destra sul coltello ed affondò con forza l'acciaio lucido nella carne viva. Un colpo sferrato nel collo caldo, pulsante. Un grido straziante gli entrò nella testa come una scheggia di vetro nella spina dorsale. Un violento fiotto di sangue gli bagnò il viso. Quel liquido caldo e denso era dappertutto. Le gambe tremarono. Si mise a piangere con singhiozzi sincopati, gli sembrò di non riuscire più a respirare.
Era la prima volta che uccideva.
Era il suo primo giorno di lavoro al macello dei maiali.
di Giuseppe Gatto

11 commenti:

Anonimo ha detto...

un poco cupo ma bello

Anonimo ha detto...

bello e malinconico.

Anonimo ha detto...

la difficoltà di affrontare la vita, la durezza della vita, l'incontro violento con la morte, la fine dell'adolescenza e la povertà del meridione. Molto bello.

Anonimo ha detto...

caro Gatto, sai che hai talento narrativo?
piccole storie, bozzetti, frammenti di vita, pennellate agrodolci.
mi piace come scrivi e quel che scrivi.
sei accurato, le parole filano via lisce, non ti incarti mai.
il contenuto di questa storia poi potrebbe essere uno spaccato di vita sottoproletaria, come si sarebbe potuto dire anni fa, o semplicemente una realtà ancora attuale che troppo spesso viene rimossa dai nostri pensieri algidi e aulici, con scritti spesso incomprensibili e così lontani dal quotidiano da parere già letti e riletti.
Aletheia

Anonimo ha detto...

bello Giuseppe! sei molto travolgente... mi piace chi descrive i personaggi anche fisicamente, chi me li fa vedere... mioddio! il finale mi ha sconvolta. molto bello, davvero - Ilaria

Anonimo ha detto...

Hai uno stile incalzante, efficare e stringato. All'inizio pensavo al solito raccontino di mafia, ma dopo le prime righe ho "dovuto" arrivare alla fine. Mi piacciono i finali non scontati. Alba C.

Anonimo ha detto...

ho iniziato a leggere il tuo scritto con un pregiudizio: pensavo ad una storia allegra, scanzonata, invece in poche righe l'ansia è salita a mille....
poi il finale inatteso!

bravo, pezzo ben scritto
delicato e forte
complimenti

Pepita

Anonimo ha detto...

Bello, mi è piaciuto molto.
Raf

Anonimo ha detto...

Le descrizioni sono molto ben riuscite e fanno entrare il lettore in atmosfera. Il ritmo e buono e trascina fino alla fine del racconto con suspance.
Un appunto: Il respiro del racconto appare molto più ampio rispetto alla brevità del testo. Non si fa in tempo ad entrare in sintonia col personaggio che la storia finisce. Sembra nato per essere un racconto più lungo, poi troncato di netto col finale.
Mr.Blue

Anonimo ha detto...

Hai un bel modo di scrivere Giuseppe, chiaro, lineare, scorrevole. Ottimo il tuo racconto, originale e dal finale imprevisto che fa tirare al lettore un sospiro di sollievo per il pathos e la tensione accumulata durante la lettura. Complimenti. Cinzia B. - Nefti

Anonimo ha detto...

Bello lo stile, piacevole il racconto.Complimenti

Libera 
Università di Alcatraz