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mercoledì 11 marzo 2009

ENRICO (di Giuseppe Gatto)


Ero a casa dei miei per le vacanze di natale, io e Martina eravamo appena tornati da una festa. Lì avevamo incontrato Franca, con la sua risata calda e contagiosa, che metteva decisamente di buon umore. Stavamo finendo la serata in cucina affettando soppressata, caciocavallo e pane cotto a legna che profumava ancora di forno, il tutto innaffiato da un vino rosso inchiostro che carezzava il palato.
Sentii abbaiare in modo insistente.
Mi affacciai dal balcone che dava sul cortile e vidi un cane che mi sembrò di riconoscere. Quasi contemporaneamente suonò il campanello d’ingresso.
Andai ad aprire.
“Chi è?”
“Enrico”
Stupito aprii lentamente la porta, pensavo a uno scherzo ma avevo riconosciuto la voce. Mi trovai proprio di fronte al mio vecchio amico. Vecchio perché non ci vedevamo da tanto, in realtà il ragazzo alto e magro che avevo di fronte era più giovane di me di una decina d’anni almeno. Bello come lo ricordavo, con i capelli lisci e neri un po’ lunghi sulla fronte, il sorriso quasi beffardo e l’aria scanzonata di sempre. Camicia chiara, un maglione leggero blu, il jeans e le adidas bianche.
“Il tuo cane! – dissi emozionato – avevo capito che era il tuo cane, ma come …”
“Si, è lui” annuì sorridendo.
Entrò, ci abbracciammo.
“Martina, … guarda chi c’è!”
A Martina quasi cadde il bicchiere di mano. Enrico la salutò, si presentò a Franca e si aggiunse alla degustazione estemporanea di salumi, formaggi e vino tinto. Restò in piedi, appoggiato con la schiena alla credenza, scostandosi di tanto in tanto i capelli dalla fronte, un suo gesto classico.
“Come stai?” gli chiesi avvicinandomi con ancora l'espressione vagamente attonita.
“Bene, … non mi posso lamentare” poi si affacciò dal balcone e fece un fischio al pastore tedesco aggiungendo un “non ti allontanare!” che il quadrupede sembrò comprendere alla perfezione.
Lo guardai ancora, allargai le braccia e gli chiesi:
“Ora cosa fai?”
“Vado in giro per il mondo. Ieri per esempio ero al Louvre, me lo sono girato tutto già tre volte. Peccato che Argo non lo facciano entrare”
“A Parigi?”
“Si, ci vado spesso. E’ molto bella. E poi in altri cento posti…”
Il citofono suonò di nuovo.
Martina andò a rispondere, erano altri nostri amici.
“Abbiamo visto la luce della cucina accesa …”
“Avete fatto bene, salite! C’è una sorpresa!”
I tre entrarono nel portone, Edoardo un attimo prima di varcarne la soglia si girò verso il cortile e lanciò uno sguardo in direzione del cane che lo ricambiò con le orecchie tese.
Arrivarono al pianerottolo del secondo piano con il fiatone, incuriositi, la porta di casa era aperta, entrarono e davanti a quella della cucina c’era Enrico in piedi che sorrideva. Edoardo, suo fratello, gli corse incontro e lo strinse a sè con quanta forza avesse in corpo.
Dopo gli abbracci, i sorrisi e le pacche sulle spalle ci trasferimmo tutti in salone, cosa non rara in quella casa che, nelle notti durante le vacanze, diventava spesso una specie di pub. Martina e Franca avevano preso i bicchieri e tirato fuori dal frigo il Carpenè Malvolti, intanto si erano materializzati i vassoi dei dolci di natale ricoperti al miele, fatti da mia nonna. Non ero ancora riuscito a finirli nonostante tutta la mia buona volontà. Sul tavolino troneggiava poi il tagliere, direttamente trasferito dalla cucina, con il formaggio, il salame in parte già affettato e il pane.
Sprofondati sugli accoglienti divani verdi disposti a ferro di cavallo ci scambiammo sguardi stupiti e felici.
Fu Enrico a rompere il silenzio:
“Stavo raccontando a Flavio dei miei giri. Non mi fermo mai nello stesso posto per più di due, tre giorni. Ho visto la California, il Gran Canyon, San Francisco. Ho attraversato l’Africa in lungo e in largo, sono stato sulla barriera corallina australiana… insomma, come diceva quello di Blade Runner – e scoppiò a ridere – ho visto cose che voi umani non potete nemmeno immaginare …”
“Io ho ancora a casa la tua foto sulla Yamaha blu, con il foulard al collo, i Ray Ban e la gnocca che ti portavi dietro…” disse Giacomo
“Beh, ora la moto non me la lasciano proprio usare…”
“E i furti a quel povero contadino?”, era Vincenzo.
Risero di nuovo tutti. Tutti tranne me.
“Capra e pannocchie, potrebbe essere il titolo di un film… e poi scappammo con la Citroen …”
“… Di mia mamma – interruppi io – e chi se lo scorda!”
“Avevamo coperto la targa con un asciugamano da spiaggia…”
“Eh, il mio asciugamano e poi è toccato sempre a me ripulire i quintali di pallette di cacca nel bagagliaio!” ribadii
“E la sera falò con grigliata di carne… e pannocchie” rise rumorosamente Enrico
“Ma come abbiamo potuto!” continuavo a sorridere ma con la testa fra le mani
“E quella nottata passata a fare le battaglie a olio e pomodori?”
“Le munizioni venivano dalla cantina di tuo nonno – disse Edoardo rivolto a me – e il giorno dopo mio padre non capiva perché la porta del garage sembrasse una pizza napoletana…”
“Certo non avevamo proprio un cazzo da fare!” osservò Giacomo
“Vedila così, ci si divertiva con poco... – riprese Enrico – adesso invece giro un sacco, però non riesco a parlare con nessuno. Mi sento un po’ solo ecco. Però pensavo peggio…”
Vincenzo era uscito dalla stanza per rientrarvi subito dopo:
“Ho messo l’acqua sul fuoco…” fece un giro di sguardi e sentenziò “ok, carbonara per tutti” e tornò in cucina.
“E quando per essere riformato ci mancò poco che ti amputassi le dita del piede?” disse ancora Giacomo
“E chi ci restava nei paracadutisti! Comunque – e rise di nuovo – zoppicai per qualche giorno ma tornai a casa!” rispose Enrico. Ridevamo tutti.
“E i numeri da circo che facevate al mare con il monosci?”
Enrico scosse la testa e sospirò.

Il tavolo basso al centro dei divani si era straordinariamente popolato di bottiglie, di vino, Chivas, Rum, piatti di carta ormai vuoti e tovaglioli stropicciati. Erano quasi tre ore che chiacchieravamo, ridevamo, ricordavamo cose fatte assieme e quelle che si sarebbero potute fare. Ci sembrava una cosa del tutto naturale. Sembrava che nessuno si fosse realmente stupito di avere di fronte Enrico, lì davanti ai nostri occhi… con il suo immenso e coinvolgente sorriso. Bello, simpatico e strafottente, esattamente come allora.

Argo raspò con le zampe alla porta. Enrico si alzò
“Devo andare” disse e fece un cenno con la mano come per dire di non alzarci. Raggiunse il suo cane, sulla porta si voltò e ci salutò ancora.
Solo allora ci guardammo tutti impietriti, in silenzio, senza riuscire a muovere un muscolo o dire una parola. Enrico se ne era andato di nuovo.
Come molti anni prima, quando ci aveva lasciato all'improvviso e senza dire nulla, togliendosi la vita. Era il nostro mito. Quello che aveva successo con le donne, che sfidava il mondo con il sorriso in faccia, quello sempre in vena di scherzi, che non aveva paura di nessuno. E non aveva avuto paura nemmeno della morte. Aveva trentatré anni, dieci più di noi, quando lo trovarono chiuso in bagno, follemente appeso a una cintura e con in tasca due lamette. Aveva proprio deciso di partire, di andare. E rimanere per sempre giovane, bello e sfrontato. Lasciando a noi il peso di vivere e invecchiare anche al posto suo. In quelle feste di natale lo vedemmo e gli parlammo per ore. Non fu una cazzo di allucinazione.
Ma non lo raccontammo mai a nessuno.


giovedì 7 agosto 2008

CHIODI (di Giuseppe Gatto)

“Largo, fate passare!”
Urla.
“Presto, presto, Fabrizio prendi la barella…”
“Spostatevi, forza! Non potete stare qui…”
Concitazione.
“Voi due, venite ad aiutarci!”
“Codice rosso! Angela fai chiamare subito Stezzari, bisogna preparare la sala operatoria: il paziente è grave”
“Forza, al tre. Uno, due, tre. Dai, dai…”
Grande concitazione.
L’ambulanza era arrivata all’ingresso del Pronto Soccorso, ostruito dalla solita auto parcheggiata fuori posto. Ne era seguito un vivace trambusto. Gli infermieri erano saltati fuori dal veicolo urlando, sbracciandosi e chiamando in aiuto altri colleghi.
Dietro l’ambulanza si era materializzata un’auto della polizia giudiziaria, da cui erano scesi tre uomini in divisa ad una velocità da telefilm americano.
Sulla barella un uomo enorme con il volto ed il petto coperti di sangue. Spalle da guerriero spartano, alto quasi due metri, la testa a forma di cubo, un brionvega da dodici pollici con i capelli a spazzola biondi. Un armadio di muscoli con la mascella quadrata, apparentemente di pietra, due prosciutti al posto delle braccia. Per riuscire a tirarlo fuori dall’ambulanza c’erano volute quattro persone.
La barella, cigolando, correva per i corridoi grigi e beige verso la sala operatoria. A seguire i poliziotti, con una mano sulla fondina della pistola ed una sul cappello. L’uomo aveva un chiodo da muratore, di quelli belli grossi, infilato in mezzo alla fronte, ben più della metà. Poco più in alto delle sopracciglia.
Era uno straniero, vivo e in forte stato confusionale. Cercava di dire qualcosa ma pronunciava solo grugniti incomprensibili. Era svenuto, quando si era ripreso si era sentito sballottato, preso di peso e adagiato su un piano rigido, quasi freddo, che tremava, vibrava e si muoveva. Sentiva che lo stavano spingendo, fra rumori e voci, luci come flash che gli accecavano gli occhi, annebbiati dal sangue. Neon bianchi. Odore di disinfettante. Un sogno confuso, fatto di rumori, voci, luci, vista annebbiata…
Lo sedarono e lo spogliarono: su un braccio aveva tatuata la scritta - welcome to hell - con caratteri grossi come carte da gioco. Sul petto lo scontro fra due grandi pugni chiusi, uno contro l’altro, con le vene gonfie e tese, legati da filo spinato, in mezzo la fiamma di un esplosione con sfumature gialle, blu, rosse. Sulla schiena l’opera più imponente: un dipinto-su-uomo di un metro per un metro. Croce celtica tridimensionale al centro e due enormi leoni neri e indaco ai lati, in piedi sulle zampe posteriori, muscoli e tendini tirati, criniera imponente. Lunghe cicatrici sparse un po’ ovunque: sul petto, sul collo, sulle gambe.
Uno che se lo incontri in una strada poco frequentata, ti viene da consegnargli direttamente soldi, orologio e telefonino, … sperando di poterlo poi raccontare agli amici.
Arrivarono i medici mentre l’uomo stava già facendo la TAC. Il chiodo era penetrato nel cervello incredibilmente senza ledere strutture vitali. Questione di millimetri. Un capello più in là e sarebbe morto.
“Non ho mai visto una cosa simile!” disse uno
“Io una volta si, un incidente in un cantiere” disse un altro “però non superò la notte” aggiunse
“Questo è un carcerato, l’hanno portato direttamente da Regina Coeli”
“Avranno cercato di ucciderlo … non mi sembra un incidente”
Medici e infermieri conversavano intorno al Carnera biondo.
“Giusto perché ha una testa come quella di un bue, altrimenti…”
I chirurghi studiavano la TAC: “Vedi, il chiodo ha penetrato la scatola cranica e si è infilato proprio in mezzo ai due emisferi, in una zona ricca di plessi venosi ma sembra non aver provocato danni irreversibili”
“Per come è entrato in profondità l’estrazione diretta con la pinza a cranio chiuso è fuori discussione. Il rischio di emorragia è troppo alto. Dobbiamo aprire”.
Era tutto pronto, il frigorifero umano era già addormentato.
Il tavolo operatorio reggeva ma dovettero inserire due supporti laterali per poter appoggiare anche braccia e spalle del gigante.
I chirurghi praticarono un incisione intorno al chiodo di circa tre centimetri per lato, con una piccola sega elettronica di precisione, poi venne estratto il chiodo grazie ad una pinza abilmente manovrata con un movimento lento e rotatorio dal dottor Stezzari. Contemporaneamente asportarono anche il tassello d’osso come si fa d’estate con le angurie. Per diversi secondi tutta la sala operatoria sembrò trattenere il respiro.
“Cauterizzate tutti i vasi” disse il chirurgo con lo stesso tono fermo delle sue mani. Venne eliminato il pezzo di ferro dal quadrato d’osso e quindi rimesso a posto il tutto.
Le mani e gli arnesi degli uomini in camice si muovevano in modo stupefacente. Le dita scivolavano velocemente fra ossa, cervello e sangue. Sembrava che stessero semplicemente sistemando dei pezzi nel cofano motore di una piccola auto. Ecco qui, un’occhiata al carburatore, una al filtro, un’avvitatina qui, un’altra qua...
“Voilà, come nuovo” disse il neurochirurgo per stemperare la tensione. Il paziente era salvo ma l’intervento era stato tutt’altro che semplice.. La sua equipe a fine intervento partì con l’applauso e non succedeva di frequente, … l’avevano ripreso per il classico pelo.
“Mi chiedo come abbiano potuto fargli questo scherzo, per tenere un bisonte così grosso devono averlo tenuto in sei”
“Forse l’hanno colpito mentre dormiva”
“Però è arrivato con la divisa da giorno” disse un infermiere evidentemente esperto in materia
“Oh, almeno stasera ho qualcosa da raccontare a mia moglie!” disse cinicamente un altro
“Portatelo giù in rianimazione”

Dopo dieci giorni Igor, questo era il nome della montagna umana, si era ristabilito. Era ancora tutto fasciato e debole, piantonato a vista in una stanza dell’ospedale che veniva spesso dedicata ai reclusi ricoverati. Nella stanza c’era anche Alvaro, un delinquente romano che andava per i settant’anni, ricoverato per problemi cardiaci. Igor non aveva cantato, la polizia era convinta che sapesse benissimo chi aveva cercato di ucciderlo ma lui continuava ad affermare di non ricordare nulla.
“Buongiorno gigante” gli disse Alvaro con la voce roca da fumatore
“Ciao” grugnì Igor
“Che t’hanno pijàto pè na parete? Te volevano attaccà ‘n quadro sulla fronte?”
Igor lo guardò senza cambiare espressione e non rispose.
Il vecchio aveva una folta capigliatura, bianca come le sopracciglia, il naso grosso e bitorzoluto, fisico tozzo ma non grasso, nascosto da un pigiama con la giacchetta, azzurro con il bordino bianco. Dopo due giorni i due erano diventati amici. Alvaro gli aveva raccontato tutta la sua vita. Quando era finito dentro le prime volte per piccoli furti: autoradio, portafogli, poi il furto con scasso in una gioielleria, la galera era stata la sua casa, la sua scuola e la sua famiglia. Ne entrava e usciva spesso e volentieri, era un criminale di una volta, di quelli con un codice d’onore. A modo suo era una persona semplice e persino onesta. Poi cinque anni prima in una lite, per difendere sua figlia, aveva ucciso un uomo. Quindi ora sarebbe rimasto dentro per un bel po’.
“E pensare” proseguiva il vecchio “che ormai avevo appeso i ferri del mestiere al chiodo… Oh scusa” scoppiò a ridere “nun volevo fà ‘a battuta!”
Sorrise anche Igor.
La stanza aveva le pareti azzurrine, i letti in tubolari di acciaio che probabilmente avevano pochi anni meno di Alvaro, armadietti e comodini di formica verde e una grande finestra.
“Comunque lo rifarei tutti i giorni. Quel bastardo nun doveva mètte le mani addosso a mi fìja”
“Alvaro” disse Igor senza nemmeno girare la testa, era ancora tutto fasciato e pieno di tubi e flebo.
Il vecchio fece solo un cenno alzando il mento, come per dire – Si, che c’è? –
“Sei un uomo bravo”
“Sono un fregnòne, nella mia vita sò stato più tempo ar gabbio che a casa mia… mò ce s’è messo pure er core a fa er cojòne…”
Si portò istintivamente una mano al petto a controllare che fosse tutto a posto
“A me è successa cosa simile” disse Igor con il suo forte accento dell’est
“Che voi dì?”
“Io sono dentro per rapina armata ma non ho mai ucciso nessuno. Rubato si, da tanti anni. Non credo di saper fare altro. In mio paese facevo combattimenti illegali ma poi sono scappato, non mi piace picchiare, fare male. Troppa violenza.”
“Però c’hai dei tatuaggi che pari un legionario!”
“Me li fece fare il boss, io ero un ragazzo, diceva che così facevo più paura”
“Ma io direi che dovevi fa’ abbastanza paura pure prima” e rise di nuovo.
“Ci hanno preso perché durante rapina mio compagno ha preso ostaggio bambina, minacciava con coltello alla gola. Poteva ucciderla. Gli ho spezzato polso, lui ha cercato di colpirmi con coltello, l’ho colpito, mentre gli altri due pensavano a dividere noi è arrivata la polizia. Uno dei nostri è stato anche ucciso… Un vero casino”
“E sì, … proprio un casino…”
“Ma io lo conosco, non ci avrebbe pensato due volte a sgozzarla come animale…”
“Insomma hai difeso una piccoletta, un tuo compagno è morto e v’hanno arrestato. Mo so cazzi tua! Ho capito perché t’hanno piantato un chiodo ‘n testa. Però ancora me chiedo come cazzo hanno fatto, sei ‘na specie de rinoceronte! … Comunque sai che te dico? Hai fatto bene!”
“Ora me l’hanno giurata, sono italiani, in galera conoscono tante persone. Io sono grosso ma se vengono in venti mi fanno quello che vogliono…”
“E non lo so… Comunque grazie che m’hai detto stè cose. Io sò muto come nà tomba. Nun te preoccupà”
“… Alvaro, c’è un’altra cosa, … il chiodo…”
silenzio
“il chiodo?” lo incalzò l’altro
“me lo sono infilato da solo”
“Cosa?” urlò il vecchio
“Avrebbero cercato di farmi fuori presto. Avevo sentito che spedizione era per la sera. Dovevo uscire per forza. Allora ho tirato fuori chiodo da una panca, l’ho poggiato sulla fronte e ho dato una testata forte al muro…”
“Li mortacci tua!!! Ma tagliate a un piede, fatte male a nà mano, non un chiodo in testa!!! … Eccheccàzzo!”
“Mi volevo solo ferire per andare in ospedale. Una cosa facile ti portano in infermeria di carcere. Chiodo in testa non puoi curare in infermeria… Qua è più difficile che arrivano”
“Ma tu sei pazzo fregato, … e comunque mi sa che sta capocciata l’hai data troppo forte! Li ho sentiti gli infermieri che chiacchieravano. Il chiodo ce l’avevi proprio dentro il cervello. Ti conoscono tutti in ospedale. Sei una specie di leggenda. Diceva il dottore che chiunque altro sarebbe finito al creatore. Diceva che tu c’hai un capoccione esagerato e che hai avuto un culo incredibile… Sei proprio matto” e si battè energicamente l’indice della mano sinistra sulla tempia scuotendo la testa per rafforzare il concetto
“Non avevo scelta, però sì, … capocciata troppo forte… Prossima volta più piano”
“Prossima volta?” disse Alvaro sgranando gli occhi
“Scherzo…” rispose Igor con una risata fioca e debole. Sembrava ridere più con il corpo che con la voce.
In quel preciso momento si sentì un urlo soffocato ed un tonfo. Entrò nella stanza un uomo magro con barba e capelli lunghi, aveva un ghigno marcio di denti gialli. Occhi piccoli e incavati, lo sguardo freddo di un professionista. Fu meno di un istante: alzò la mano destra e la rivolse verso Igor, stringeva nel pugno una pistola con un lungo silenziatore. Il rumeno sbarrò gli occhi, il killer stava per premette il grilletto quando gli piombò in piena faccia una bottiglia di acqua minerale. Il preciso lancio di Alvaro lo prese in pieno. Il proiettile si infilò nel soffitto. L’effervescente naturale da un litro esplose in faccia al killer disegnando tutto intorno un quadro astratto di pezzi di vetro verde e sangue. Igor guardò il vecchio stupito e incredulo.
“Grazie!” balbettò
“Ma te pare!” rise Alvaro
Il gigante si alzò tirandosi dietro tubi, fili, elastici e flebo, che strappò via. L’uomo si stava rialzando, Igor gli piantò un cazzotto in faccia che avrebbe tramortito un bufalo, poi si impadronì della pistola che mise nella cintola dei pantaloni. Si avvicinò ad Alvaro, gli prese la faccia fra le sue manone lo guardò negli occhi e gli sorrise di nuovo:
“Bella mira… Vai via da questa stanza, questo non si rialza subito ma potrebbe esserci qualcun altro…”
“Vai via te, corri. Che a me ce bado io…”
Il rumeno lo abbracciò poi uscì dalla stanza. Vide il poliziotto esanime davanti la porta, forse colpito in testa con il calcio della pistola. Si sincerò che fosse ancora vivo, poi cominciò a correre per i corridoi…

Alvaro era rimasto seduto, si portò la mano al petto, una fitta acuta – il lancio della bottiglia – pensò. Si mise a ridere fra sé:
“Però che tranvata che j'ò dato a stò stronzo!”.
Un’altra fitta, più forte della prima, al petto e al braccio sinistro.
Gli si disegnò sul viso una smorfia di dolore, la bocca tirata in un sorriso stupito, e si accasciò di fianco sul letto.

martedì 1 luglio 2008

L'ALBERO DELLE MORE (di Giuseppe Gatto)


“Ma è questo?” dissi
Lei fece sì con un cenno del capo ed un lieve sorriso
“Dai, non ci posso credere! Mi prendi in giro…”
“Ma no! E’ lui!”
“Ma il nostro era … più grosso, più alto. Era enorme! E poi era in mezzo al nulla!”
“Amedeo, avevamo sei anni, ci sembrava enorme! Sono passati più di trent’anni. E’ già un miracolo che sia ancora qui, tutte queste case non c’erano. Ora sembra un bonsai!”
– Il nostro bonsai – penso, e invece dico:
“Un bonsai in mezzo al cemento”
“Arrivavamo in bicicletta, quasi tutti i pomeriggi…” riprende lei “era il nostro rifugio, salivamo su e mangiavamo tutte le more che riuscivamo a raggiungere...”
“...troppo buone! Bianche, dolcissime…”
Continuiamo a parlare e a guardare quello che era il nostro mondo. Non ci vediamo da allora. Giovanna ride, con quel suo sorriso infinito che mi metteva soggezione e mi faceva arrossire già a sei anni. Eravamo soltanto due bambini eppure io ne ero perdutamente innamorato, come solo un bambino sa esserlo. Ricordavo perfettamente la luce e l’allegria dei suoi grandi occhi verdi, le fossette sulle sue guance e quel suo modo particolare di ridere. Avevo sette anni quando la mia famiglia cambiò mare e non ci vedemmo più. Oggi sono passato per caso da queste parti e non ho potuto fare a meno di cercarla. E’ tardo pomeriggio ma il caldo è comunque da estate inoltrata. Nell’aria c’è un bell’odore di salsedine e di pietre calde. La sua casa era sempre lì, inclusi il vecchio cancello verde ed il muretto bianco. Sono rimasto immobile per dieci minuti, forse più. Poi ho preso coraggio e l’ho chiamata. Lei è uscita, con il pancione e due marmocchi stupendi attaccati alle gambe. – E’ sempre la stessa – ho pensato – il naso un po’ più importante, qualche ruga, un’aria meno spensierata, ma il sorriso dei suoi occhi e le fossette sulle guance sono proprio lì dove li avevo lasciati –
Giovanna mi ha scrutato per qualche secondo prima di inarcare le sopracciglia, esclamare il mio nome e scoppiare in un sorriso totale. Dopo il caffè di rito siamo usciti a fare una passeggiata, i suoi piccoli sono rimasti in giardino con la nonna.
“Nonna, chi è quel signore?”
“E’ Amedeo, un amichetto della mamma”
Ho notato lo sguardo furbo del maschietto che aggrottava la fronte e probabilmente faticava a catalogarmi nella categoria amichetti, viste le mie dimensioni.
Come guidati da un navigatore satellitare siamo arrivati all’albero delle more.
“Restavamo qui a giocare per ore” continuo guardando il punto dove il tronco si apre come una mano.
“Sì, quest’albero era un castello, un aereo, una nave spaziale...”
“Mah, … io soprattutto venivo per mangiare le more! E poi arrampicarmi sui rami mi faceva sentire molto Tarzan!”
Ride. Mi dà una spinta sulla spalla. Come è bella.
“Giovanna, ma tu lo avevi capito che ero innamorato di te?”
L’ho pensato a bruciapelo ma le mie labbra non si sono mosse di un millimetro.
“Come mai sei scomparso?” dice “Potevi passare a salutarci ogni tanto!”
“Il giorno che dovevo partire venni a salutarti, arrivai vicino al fiume e ti vidi giocare e scherzare con Giulio. Ero a pochi metri da voi quando tu lo hai abbracciato, quasi di scatto, e gli hai dato un lungo bacio sulla guancia, con gli occhi chiusi, lo ricordo bene. Sentii un pugno qui, alla bocca dello stomaco, una vampata di calore in viso e scappai via”
Di nuovo, le labbra non si sono mosse. Poi dico:
“Boh, eravamo bambini…” e alzo le spalle “posso?” lei fa cenno di sì e le sfioro la pancia con la mano. Da quando sono diventato anche io papà, le pance mi fanno una tenerezza infinita.
Mi prende la mano fra le sue: “mi ha fatto piacere rivederti. Ma ora devo scappare. Giurami che ripassi, magari mangiamo un boccone assieme e ci facciamo un bagno, ok?”
“Si certo. Devo andare anche io, ciao Giovanna”
“Ciao”
Il tempo si ferma. Non sento più uccellini e cicale, né il caldo sulla pelle, né la risacca in lontananza. Persino l'aria mi sembra più fredda e rarefatta.
E mi riprendo finalmente ciò che era mio. Il mio bacio sulla guancia.
Con qualche anno di ritardo.


di Giuseppe Gatto


venerdì 27 giugno 2008

I RACCONTI DI KARIN


Una piccola informazione di servizio. Alcuni miei racconti vengono da poco ospitati sulla rivista I racconti di Karin. Una rivista letteraria allo stato embrionale (ma mica poi tanto!). Una microrivista che è già arrivata al numero due, passando attraverso il numero zero ed il numero uno (Il numero tre è in preparazione). Uno spazio che ospita artisti, scrittori, vignettisti, poeti, che hanno qualcosa da dire, da mostrare... Il suo ideatore, Stefano Pelloni, desiderava creare un punto d'incontro per coloro che vogliono dare voce ai propri lavori. Secondo me ci sta riuscendo. I suoi racconti sono peraltro molto belli

Chi fosse interessato a pubblicare i propri lavori sulla rivista può contattare direttamente Stefano (e-mail: pell68@libero.it)

I racconti di Karin è scaricabile gratuitamente su LULU' e anche acquistabile in versione cartacea, of course! Clicca su Lulù (http://www.lulu.com/) e cerca "I racconti di Karin"

Giuseppe Gatto
Libera 
Università di Alcatraz