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mercoledì 31 luglio 2013

DI NOBILI CAVALIERI, DESTRIERI E ARMATURE (di Giuseppe Gatto)

Gli annunci su PortaPortese, le telefonate, i giri per la Brianza e ora finalmente era lì, bella, lucida, carenata e con i colori dell’HRC: il rosso, il bianco e il blu delle Honda ufficiali da gara. La mia prima vera moto: una Honda VF500FII del 1986, usatissima e splendida, almeno ai miei occhi. Per la verità scoprii solo dopo che era anche stata seriamente incidentata e rimessa a posto alla bell’e meglio, alle alte velocità tendeva a tirare un po’ a destra, chiaro come la neve che mi avevano rifilato un’inculata. “Un’esperienza” avrebbe detto mio nonno “L’esperienza è una serie interminabile di inculate. E le devi prendere tu, direttamente, capisci? Quando te lo raccontano gli altri, ti danno i consigli, non li ascolti, non ci credi per davvero. Invece quando lo prendi in culo tu, di persona, poi vedi come te lo ricordi!”. Uomo saggio mio nonno. Ogni volta che parlava erano pietre. Come quando si discuteva di cosa fosse bello e cosa no e lui diceva: “Non tutti hanno gli stessi gusti. E meno male, pensa se tutti si volevano sposare con tua nonna!”. 

L’avevo pagata poco più di due milioni di vecchie lire. Sudatissimi risparmi messi su facendo di tutto: piccole e semi-innocenti truffe all’università, le interviste di marketing quando ancora non esistevano i call center, braccavo la gente per strada e prendevo certi vadarviaelcù che cantavano con gli angeli, e poi l’aiuto cuoco, e anche qui ce ne sarebbero un paio da raccontare, come quella volta che presi una griglia appena uscita dal forno ma distrattamente ero senza guanti e buttai in terra un paio di chili di pesce, scampi e gamberoni. Il cuoco, un simpaticissimo livornese perennemente ubriaco, li prese da terra senza battere ciglio e tenendo a bada con la mano sinistra il suo gatto persiano rosso che si era subito fiondato sull’insperata pioggia di mare, con la destra ricompose e mise nei vassoi tutto il pescato, soffiando via lo sporco sopra alcuni in particolare, insieme a qualche foglia di insalata e qualche limone. “Al tavolo quindici!” urlò ai camerieri e poi a me: “Tranquillo, unnè successo nulla”, e io ero lì impietrito che non mi ero ancora nemmeno accorto delle gravi ustioni alle dita. Poi le ripetizioni ai ragazzi delle medie, che spesso però ne sapevano più di me, ma io fingevo e ostentavo estrema sicurezza e padronanza della materia. “Lei su cosa fa ripetizioni?” chiedevano i genitori, “Di cosa avrebbe maggiormente bisogno il ragazzo?” rispondevo io sicuro “Soprattutto la matematica” e io annuivo risoluto “Infatti, la mia materia forte è la matematica” e di volta in volta la mia materia forte poteva essere la chimica, l’italiano, storia e geografia. Una volta persino il latino, che io a malapena ricordavo la declinazione di rosa-rosae. Ero multidisciplinare insomma. Sto divagando. Era la mia prima vera moto, dicevo, la desideravo da anni e anni e quindi per me era la materializzazione di un sogno.

Avevo vent’anni, studiavo e vivevo a Milano. Studiavo, beh, ero iscritto all’università, questo si e qualche volta devo aver pur studiato, sicuramente. Ma torniamo alla belva, andava inaugurata in modo adeguato al suo lignaggio, avrei avuto finalmente un bel branco di cavalli sotto il culo e un giretto intorno alla città non poteva certo bastare. Presi una decisione: sarei andato a casa in moto, giù in Calabria, dai miei. Era novembre e preparai il viaggio in modo colpevolmente e ingenuamente approssimativo, specialmente per quanto riguarda l’abbigliamento tecnico. 
Ignoranza e inesperienza mescolati in un micidiale cocktail di colore incerto. 
Sabato mattina Floppy venne a svegliarmi. Oltre che sveglia umana e vittima quotidiana dei miei scherzi da prete, Floppy era il ragazzo con cui dividevo eterosessualmente il piccolo e disordinatissimo appartamento in affitto. “Piove” disse, “assai” aggiunse. Mi tirai su, appoggiandomi ai gomiti, guardai fuori dalla finestra: Giove Pluvio stava proprio incazzato. Mormorai un bestemmione e mi ributtai giù, potevo continuare a dormire, il viaggio era rimandato. 
“Vabbè ma a te cosa ti fanno due gocce d’acqua!” era sempre lui, Floppy, che porca puttana me lo stava mettendo nel culo con questa coltellata nell’orgoglio e nel mio ego smisurato. Mi tirai su di nuovo: “Ma si, ormai ho avvertito tutti, gli amici, i miei, poi ci rimangono male” dissi poco convinto e il mio amico fece un gesto con la testa come per dire “Eh certo!”. 
Sto cazzo d’orgoglio. E poi la testardaggine e tutto il resto. Dovevo partire, e volevo anche partire, mettiamola così.
“L’Italia è lunga, da Bologna in giù smetterà, no?!” dissi cercando di convincere più me stesso che lui. Mi fece un grande sorriso di approvazione. Si era vendicato contemporaneamente almeno di dieci scherzi di medio livello e forse non se n’era nemmeno completamente reso conto. L’Italia è lunga, ma per quasi tutto il viaggio la nuvola assassina di Fantozzi mi segui come un cagnolino. Sai quei bastardini tanto affettuosi e fedeli che ti si attaccano vicino e non ti mollano più anelando una carezza. Ecco la mia nuvola fece così. Grigia, scura, grossa, piena d’acqua, compatta, incazzata e maledettamente semovente, da nord a sud, più o meno alla mia velocità. Floppy non vedeva l’ora di aiutarmi per la vestizione, stava godendo il bastardo, e quindi mi preparai alla pugna. 

Seguitemi bene: indossai i jeans e, sopra i pantaloni, su stinchi e ginocchia, avvolgemmo dei quotidiani, legandoli con abbondante nastro adesivo, quello largo da pacchi, stretti quel tanto che bastava perché restassero ben saldi ma facessero circolare il sangue. Provammo anche la posizione “seduta”. Si, il sangue circolava. Stessa cosa per l’addome e il petto. Chi non è pratico sappia che i fogli di giornale, a più strati, sono un’ottima barriera contro il vento e il freddo, un vecchio passaparola fra motociclisti, ma mai potevo pensare che funzionassero così bene per davvero! Soluzione rustica ma riuscita, seppi poi. Cominciavo però ad avere qualche lieve difficoltà di movimento. Calze doppie e stivali ai piedi, sopra i jeans e gli scudi di giornali indossai dei copri-pantaloni verdi con le clips in materiale idrorepellente, che poi si rivelarono non repellere assolutamente alcunché. Li avevo comprati a un mercatino di roba usata militare. Valevano tutte le poche migliaia di lire con cui li avevo pagati. Un’altra inculata. Un’altra esperienza. Poi la maglietta e sopra questa ancora i quotidiani nastrati, quindi due felpe e infine il giubbotto in goretex, l’unica cosa decorosa oltre al casco, un Arai modello Kevin Schwantz replica che valeva da solo la metà di quanto avessi pagato la moto. I guanti erano in simil camoscio marrone fuori e in simil pellicciotto dentro. Seppi dopo che si sarebbero inzuppati in appena trenta secondi netti, un record. Ma per fortuna ebbi l’ideona: sotto i guanti pellicciottati indossai dei lunghi e spessi pirelli rosa, quelli per lavare i piatti. Felpati e super-robusti. “Ehi ma quelli sono i miei guanti” disse il mio coinquilino, i patti erano chiari, io cucinavo e lui lavava i piatti. “Te li ricompro, è un’emergenza. Non rompere”. Ero quasi pronto. Indossai il sottocasco di cotone, quello che lascia scoperti solo gli occhi, il casco e il paragola, una sorta di grosso collare gommato. Questo per fortuna fu annoverato fra i pochi indumenti risultati poi impermeabili per davvero. Cominciai a sudare, diventai paonazzo e la temperatura corporea raggiunse livelli da sauna finlandese. In compenso la semplice deambulazione mi risultava parecchio difficoltosa e ogni minimo movimento mi creava imbarazzo, fiatone e aggravava inesorabilmente il problema della temperatura. Meraviglioso. Sarà un lungo viaggio, pensai. Borsone con qualche effetto personale, legato sulla parte posteriore della sella con l’elastico a rete, e via. Si, ma prima ero dovuto montare in sella.
Fra i giornali, il nastro adesivo, il sovra-abbigliamento tattico e la temperatura a rosso fisso avevo la stessa fluidità di movimenti di Neil Armstrong quando scese dal modulo lunare. Un piccolo passo per l’uomo, un grande passo per la storia dell’umanità. E partii. Finalmente. E forse non potete capire appieno la gioia di questo “finalmente”. Fra l’acqua e il vento la temperatura tornò velocemente accettabile e i guanti in simil-tutto erano almeno utili come tergicristallo quando la visiera si sporcava troppo. Snocciolai le sei marce spalancando aggressivo il gas, il quattro cilindri a V cantava che era un piacere e andavo come il vento. E la nuvola insieme a me. Cantavo a squarciagola nel casco i Police, Rino Gaetano, Lucio Battisti – lebiondetreccegliocchiazzurriepoi... – non so se era per tenermi compagnia o semplicemente perché ero allegro e avevo voglia di cantare – letuecalzetterosse... – Sprezzante dei limiti di velocità mi sentivo il vero Kevin Schwantz, alto due metri e a prova di proiettile, e ogni camion con rimorchio (e relativa pericolosissima nuvola d’acqua), ogni Ford Focus Station Wagon, ogni furgone bianco era un doppiato da superare per puntare al traguardo. Non mi superò quasi nessuno. Quasi. Di tanto in tanto arrivava una moto “vera”, di quelle grosse, e mentre io ero lì che mi sembrava di andare come un aereo, mi superava e mi sverniciava. Sentivo quasi solo il rumore. Poi qualche auto sportiva di grossa cilindrata. L’umiliazione durava pochissimo. Sto facendo un buon tempo, pensai, nei primi cinque ci arrivo sicuro – el'innocenzasullegotetue, duearanceancorpiùrosse – E continuai a superare tutto il superabile. Non vedevo le segnalazioni dai box ma mi godevo il motore, la strada che mi scompariva sotto le ruote, il vento addosso, il paesaggio e gli sguardi enormemente gratificanti dei bambini che mi ammiravano dalle macchine. Io per un attimo ero il loro eroe. Ogni auto bambino-dotata che superavo vedevo che cominciavano a indicarmi con il dito ai genitori già dal lunotto posteriore e poi passavano ai finestrini laterali, si spiaccicavano sui vetri, e si vedeva che dicevano alla mamma, al papà “Guadda mamma, guadda papà, la moto, semba un mazziàno!”. Un marziano no ma un astronauta tutto, bardato com’ero tipo Bibendum Michelin. La visiera era anche oscurata quindi non mi si vedeva in viso: il-temerario-cavaliere-mascherato-che-a-bordo-del-suo-destriero-di-metallo-sfidava-le-intemperie-e-le-leggi-della-natura-e-della-fisica declamavo e deliravo ad alta voce nel casco. Li salutavo con un cenno della mano e loro erano felicissimi. E immaginavo i genitori che almeno per i dieci minuti successivi avrebbero provato a spiegare ai figli, tediandoli, che non ero un buon esempio, che ero un pazzo, che stavo rischiando la broncopolmonite o peggio di finire sotto le ruote gemellate di un camion. E che comunque tanto la moto a loro non gliela compravano. Punto. 

L’acqua me la godevo un po’ meno. Ero completamente fradicio in varie zone del corpo, ma l’adrenalina, la gioia, il brivido della velocità e il sovra-abbigliamento tattico mi facevano sentire completamente a mio agio e in pace con me stesso e con il mondo – matiricordileondegrandienoi, glispruzzieletuerisa – 
Bologna. Minchia sono ancora a Bologna! Mi sembrava di essere in viaggio almeno da due-tre giorni! E non ho ancora detto nulla dei momenti drammatici. Si, ci furono quattro momenti drammatici, che si ripeterono, anche: benzina, pedaggio, panino, pisciare. In ordine rigorosamente sparso. Fare benzina fu la cosa più facile. Con molta calma e le mani intirizzite dal freddo dovevo togliere i guanti fradici in simil camoscio, poi i guanti in gomma che erano diventati una seconda pelle e quindi prendevo il portafoglio, sopportando pazientemente le battute e le risate del benzinaio. Le risate diventavano stranamente più piene e rumorose quanto vedevano spuntare i guanti rosa. E vabbè. Il pedaggio era opera più laboriosa perché, con la fila delle macchine dietro, le operazioni erano le stesse del pit stop benzina ma con l’aggravante dell’ansia e del doversi sbrigare. Impazienti sti automobilisti, e che è! E togliere quei cazzo di guanti pirelli non era proprio una passeggiata. Ovviamente ogni volta che scendevo sotto i 30 km orari il casco diventava un piccolo altoforno, la pressione arteriosa avrebbe messo in crisi più di uno strumento di misurazione a pompetta e il sudore mi gocciolava copiosamente sugli occhi e sulla faccia. Era del tutto insufficiente aprire la visiera! Ma il dramma, quello vero, fu quando trattieniti, trattieniti non ce la feci più: dovevo assolutamente pisciare. Contemplai seriamente l’idea di pisciarmi placidamente addosso ma non ce la feci, non riesco a farla nemmeno nel costume sotto la doccia, figuriamoci. E poi le sollecitazioni delle vibrazioni della sella in marcia, proprio lì nel delicato incavo prostatico, nel sottopalle, necessitavano una urgente e risoluta risposta. L’armatura di giornali e nastro adesivo da pacchi rendeva davvero impegnativo sia scendere dal destriero, sia rimontarci sopra. In più le giunture erano leggermente arrugginite dal freddo e dall’acqua. Per raggiungere il povero pistolino rattrappito dal freddo e dalle vibrazioni di cui sopra dovevo togliere i doppi guanti, aprire il giubbotto, abbassare i copri-pantaloni, aprire la lampo e cercare il tutto a memoria con le mani prive di qualsiasi sensibilità. Più facile a dirsi che a farsi. E senza poter piegare più di tanto il busto. E sempre con il forno in testa. Alzavo giusto la visiera. Fu davvero un'impresa epica, fortunatamente ripetuta solo un'altra volta. Mi sembrava di essere a Giochi senza Frontiere e mi sembrava a tratti di sentire distintamente il fischietto di Guido Pancaldi e Gennaro Olivieri e le loro esortazioni a giocarmi il fil rouge.

Cercai di resistere stoicamente anche alla fame ma alla fine fui costretto a capitolare miseramente. Nella fretta della vestizione avevo dimenticato di preparare un paio di robusti e indispensabili panini, nemmeno un po’ d’acqua da bere mi ero portato. Davvero un professionista! E fu così che per la prima volta da quando ero montato sul cavallo di ferro mi dovetti togliere anche il casco e il sotto casco, oltre al solito doppio paio di guanti, apri il giubbotto per raggiungere il portafoglio, eccetera, eccetera. Dovevo ovviamente liberare le fauci per poter ingurgitare in piedi e velocemente un enorme panino con il salame piccante e la mozzarella. La sosta non doveva durare molto, non potevo abbassare troppo la media. Intanto gli altri piloti, i camion, le Ford Focus, i furgoni mi si avvantaggiavano, cazzo! Inservienti e ospiti dell’Autogrill si divertirono abbastanza ad assistere al mio arrivo, alla parziale svestizione e alla successiva ri-bardatura. Immagino che ancora oggi si ricordino bene tutta la scena. I bambini sempre i più felici di tutti. Il pesante incartamento dei quotidiani mi aveva reso una specie di incrocio fra il robot dorato di Guerre Stellari e un Iron Man di cartone e 110 chili almeno: un goffo e robusto cavaliere della Lego PlayMobil. 

Ma l’impalcatura si rivelò assolutamente preziosa per il mantenimento di una temperatura corporea accettabile e per poter essere qui a raccontarlo oggi avendomi considerevolmente aiutato a scongiurare una praticamente certa broncopolmonite acuta con gravi focolai multipli bilaterali a cui sarebbe seguita inevitabilmente la morte del paziente. Altri sorpassi, altre nuvole d’acqua, altri bambini felici nelle auto, qualche curvone preso un po’ troppo allegro che mi fece stringere leggermente e con rispetto parlando il buco del culo per la tensione e il timore di non riuscire a rimanere con entrambe le ruote in pista – elacantinabuiadovenoi, respiravamopiano... – altri doppiati, qualche brivido dovuto agli improvvisi alleggerimenti da acquaplanning, quando le ruote galleggiano sulle grandi pozze d’acqua e tu ti senti per un attimo nelle mani di Manitù e smetti di cantare, a volte ti si ferma per qualche decimo di secondo anche il respiro, ti sembra nettamente che per un attimo si possa fermare anche il cuore, poi la riesci a tenere e ne vieni fuori, discrete scariche d’adrenalina, qualche sprazzo di felice incoscienza, le vibrazioni, il rumore, altri sofferti pit stop. 

E dopo quasi dieci ore, mille e passa chilometri e negli occhi le immagini veloci come fotogrammi impazziti di tutto il viaggio, di tutti i paesaggi, di tutti i bambini, di tutte le pozzanghere, arrivai al traguardo. Fradicio e sporchissimo. Pioggia e freddo mi avevano accompagnato almeno fino a Napoli. Poi aveva smesso, grazie a Manitù! Ma era calato il buio. E avevo capito che la visiera scura era molto bella ma era un’altra piccola inculata. Vedevo poco e male e giusto dentro il cono di luce dei fari. Ma la meritata e sofferta bandiera a scacchi era vicina. E ora ce l'avevo fatta. 
Per permettermi di scendere dalla moto lo strumento ideale sarebbe stato l’argano di legno con carrucola che si usava nel medioevo per mettere e togliere da cavallo i cavalieri con armatura e lancia. Ero rigido che sembravo completamente ingessato o congelato. E mi sentivo così, preciso: congelato e ingessato. 

Mio fratello e i miei amici riuscirono a fare a meno della gru riuscendo comunque a separarmi dalla mia moto fumante. “Sopra i 150 tira un po’ a destra” bofonchiai come prima cosa già presagendo la successiva triste scoperta. Ginocchia, schiena e collo erano praticamente un blocco unico. Sceso dalla moto rimasi per un bel po’ tutto incrocchiato e umido. Ero in poltrona, ma seduto sul bordo, seminudo e con un plaid addosso. Non riuscivo ancora a rilassarmi. Le membra faticavano a cambiare posizione rispetto alla “seduta” della moto. Avevo tutti attorno e il sangue ricominciava lentamente a scorrere lungo il corpo. Sorseggiai una tazza di latte caldissimo e molto corretto. Il latte l’aveva preparato mia mamma, la generosa correzione al Jack Daniel's era stata invece una furtiva opera di mio fratello. Stavo lentamente tornando a un colorito normale.

“Tu sei pazzo” disse mia madre mentre mi guardava con occhi increduli, mio fratello e i miei amici ridevano, qualcuno scuoteva la testa, qualcuno mi dava una pacca sulle spalle, “Ma veramente è venuto da Milano in moto? Con questo freddo?” disse mia nonna rivolta a mia madre e poi si mise a ridere convinta che la stessimo prendendo in giro. 
“Ti sei divertito?” chiese mia zia “Si, tanto” risposi io “Sono arrivato sicuro nei primi dieci”. 
E il giorno dopo ero a letto con la febbre a 39. Felice. 
- Omareneroomareneroomarene... tuerichiaroetrasparentecomeme... -


di Giuseppe Gatto

3 commenti:

Anonimo ha detto...

Carinissimo, anche se, i vaffa milanesi che 'cantavano con gli angeli', lo capiscono solo da Lagonegro a scendere! :-D
Bravo Gattone!
Marcella CorZo

Giuseppe Gatto ha detto...

Ah ah ah grazie, insomma quasi 30 anni di onorata militanza da emigrante e ancora sto slang calabrotto non si vuole evolvere "ne' per dio ne' per i santi" :-)

KungPaolon ha detto...

mi ricorda in parte un cazzone che conosco che si è fatto roma cosenza in vespa, ma questa è un'altra storia...

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