Sara si dava un sacco di arie. Ti guardava sempre dall’alto in basso. Quando i ragazzi più grandi venivano a prenderla all’uscita da scuola, poi, aveva un sorriso ancora più sornione e beffardo del solito. Quasi volesse dire: – io non sono una mocciosa come voi –
Marcello aveva sedici anni, faceva la terza liceo ed erano compagni di classe. Il giorno seguente le avrebbe dato una piccola lezione. Anche lui era “grande”, ed era coraggioso, spavaldo, diverso da quei bamboccioni che la circondavano.
“Vespino, i miei vanno via due giorni” disse al suo compagno di banco
“E quindi?”
“E quindi so dove lascia le chiavi della macchina mia mamma”
Vespino non rispose e scosse la testa:
“Non ti seguo”
“Veniamo a scuola in macchina!”
“Si, così ci fermano e ci si bevono con la macchina e tutto”
“Dai, io sembro più grande, non ci fermano”
Vespino si diede una manata sulla fronte
“Ma innanzitutto la sai guidare?!?”
“Ma si, non sarà molto più difficile della moto!”
“Non sarà?!? La sai guidare o non la sai guidare?”
“L’ho guidata qualche volta in campagna, dai nonni”
“Si, in prima e per venti metri, me lo ricordo!”
“Vabbè ma il concetto è quello!”
“Tu sei scemo”
La mattina dopo, più presto del solito, prese le chiavi, riuscì ad accendere l’agognato quadriruote scatolato e riuscì persino a partire, un po’ al trotto, con l’utilitaria dell’ignara genitrice. Concentrato come un cecchino bosniaco, con gli occhi stretti sulla strada, i muscoli tesi, le braccia e le mani rigide sullo sterzo, la goccia di sudore di ordinanza lungo la schiena e non inserendo mai marce superiori alla terza, riuscì ad arrivare sotto casa dell’amico. C’era uno spiazzo sul quale affacciava la grande finestra della sua cucina, al terzo piano. Diede due colpi di clacson e comparve Vespino incredulo, due secondi dopo apparve anche la mamma, che immediatamente chiese:
“Ma Marcello ha già la patente?”
“Eeeh, si, certo, a scuola lo hanno bocciato due volte, ha già fatto diciott’anni…” e intanto lanciò uno sguardo assassino verso la macchina e il suo pilota. Che sorrideva a trentadue denti. Il pilota. E forse anche un po' la macchina.
Poi scese giù con il volto tirato, salì in auto. Appena vide Marcello felice e sorridente come una pasqua scoppio a ridere pure lui e lo salutò con un:
“Ma vaffanculo và, tu sei pazzo!”
“Si va a scuolaaa!” rispose Marcello eccitato e partì con qualche lieve incertezza e sussulto.
“C’è la frizione che stacca male…” si giustificò
“Si, si, come no. Vai piano sennò tiro il freno a mano!” rispose l’amico.
Giunsero nel cortile dell’Istituto un quarto d’ora prima della campanella d’ingresso. Erano quasi tutti già lì, in diversi capannelli che chiacchieravano, fumavano, aspettavano l’ultimo momento possibile prima di entrare e cominciare la faticosa giornata. Il classico salotto pre-scolastico. C’erano molti gruppetti, spesso maschi con maschi e femmine con femmine, secondo i più classici stereotipi i primi parlavano di pallone, di quisquilie e di ragazze e le seconde di quisquilie e di ragazzi. Uguale insomma, tranne il pallone.
L’arrivo fu come Marcello aveva previsto: trionfale. Sembrava Annibale di ritorno dalle guerre puniche. Abituati a vederlo arrivare su un Ciao dalla marmitta rumorosa e scoppiettante, spesso su una ruota sola, vederlo presentarsi a passo d’uomo in auto fece un certo effetto. Anche perché quasi nessuno al liceo aveva ancora la patente! Con gesti studiati e appena un tantino teatrali parcheggiarono a bella posta a pochi metri dall’ingresso, scesero e cominciarono a salutare i compagni che si avvicinavano.
Marcello aprì la sua ruota e si improvvisò pavone.
“Ma certo che la so guidare”, “Si, la prendo spesso”, “I miei? Non mi dicono nulla”, “La polizia? Figurati se riesce a fermarmi”. Marcello stava snocciolando un patetico campionario di frasi puerili. Poi la vide, i loro sguardi si incrociarono. Un paio di secondi, poi lei tirò dritto verso l’ingresso. Con quei suoi capelli lunghi, neri dai riflessi blu notte, quegli occhi verdi e luminosi, quei suoi vestiti leggeri e svolazzanti che si adagiavano come onde sulle sue curve. E con quell’atteggiamento di consumata spavalderia di chi sa di piacere ai ragazzi, forse anche agli uomini.
Lui senti il solito pugno allo stomaco, glielo faceva sempre quando la vedeva. Però oggi il protagonista era lui, aveva decine di ragazzi e ragazze attorno, con i loro urletti e le loro risatine, si sentiva molto Arthur Fonzarelli appoggiato al cofano della Cadillac nera con le fiammate gialle sulle portiere. E poi era riuscito ad attrarre la sua attenzione. Si sentiva bello e guascone. Certo non capì se nello sguardo di lei ci fosse ammirazione o compatimento ma sperò nella prima ipotesi. Deglutì.
“Vespino, salta su, si parte”
“Come? E la scuola?”
“Oggi niente scuola” e poi rivolto a tutti “Ciao ragazzi, abbiamo un po' di giri da fare”
L’amico salì di nuovo a bordo.
“Sei un pazzo, sei un pazzo… e io che ti vengo dietro!”
Prima tappa il campo di calcio in terra battuta poco lontano da scuola dove cominciarono a provare le sbandate da rally. In seconda marcia, ruotando di colpo lo sterzo e tirando il freno a mano. Dopo qualche tentativo maldestro riuscirono a fare dei testa coda notevoli. Urlavano, erano felici, ridevano e avevano alzato una tale nuvola di terra polverosa che sembrava di scorgere l’arrivo del settimo cavalleggeri a difesa del solito fortino assaltato dagli Apache. Poi Marcello prese una stradina sterrata e salì con le due ruote del lato destro sul fianco in salita del terreno e cominciò a urlare: “Remy Julienne, Remy Julienne!”, un abile stunt man degli anni ’80 che questo gioco lo faceva per davvero, mettendo la macchina su due ruote, ma senza appoggiarle ad alcuna strada! Adrenalina a mille ed entusiasmo alle stelle. Quando hai sedici anni, in piena tempesta ormonale ma con la testa ancora di un bambino ti diverti con poco. Gli ingredienti c’erano tutti: la zingarata, il fascino del proibito, del pericolo, il furto dell’auto, le acrobazie. E poi lui e Vespino si volevano bene, erano amici sin da piccoli, ne avevano condivise tante e questa bravata della macchina era una di quelle cose che li faceva sentire mostruosamente complici e li trasformava in due supereroi. In quel momento si sentivano quasi onnipotenti, alti due metri e a prova di proiettile. La macchina superò brillantemente tutte le prove: era decisamente sporca ma ancora sana. Freni, semiassi, motore, incredibilmente aveva resistito tutto.
“Andiamo in centro, ci fermiamo davanti al bar e ci prendiamo un gelato al limone”
Vespino fece si con la testa, aveva il sorriso che sembrava più una paresi anche perché nei vari test di robustezza della povera utilitaria si era a tratti anche un po’ cacato sotto dalla paura!
Nel traffico Fonzie era molto più guardingo e cercava di mantenere alta la concentrazione, in pochi minuti avevano quasi arrotato una vecchietta, quasi abbattuto un cassonetto della spazzatura e quasi investito frontalmente un autobus. Ma era andata sempre bene.
Certo non poteva durare a lungo.
Stavano percorrendo via Roma: una strada bella trafficata con due corsie più la fila di macchine parcheggiate.
A un certo punto Marcello disse all’amico:
“Cazzo, più avanti c’è il negozio del cugino di mamma, zio Luigi, il fotografo! Se poco poco è sulla porta e mi vede alla guida della macchina sono F O T T U T O !”
“E infatti è sulla porta che sta fumando” continuò la frase Vespino
“Giù” disse Marcello e contemporaneamente i due si acquattarono per non farsi vedere, si scambiarono un’occhiata con i volti a pochi centimetri di distanza e si dissero con gli occhi sgranati e solo con lo sguardo: - Chi cazzo sta guidando?!? - il tempo di pensarlo e non fecero nemmeno in tempo a rialzare le teste. Marcello si era appiattito sul sedile ma aveva continuato ad andare avanti come niente fosse. Fortissimo rumore di lamiere e vetri. Tamponarono violentemente una grossa vettura che aveva frenato davanti a loro. Esattamente davanti al negozio di Luigi che riconobbe entrambi, resto impietrito a guardare la scena surreale e gli cadde lentamente la sigaretta dalla bocca.
- Cos'è il genio? È fantasia, intuizione, colpo d'occhio e velocità di esecuzione! – così sentenziava il Perozzi in “Amici Miei” e così fu Vespino. Semplicemente geniale.
Disse velocemente:
“Li distraggo io tu vattene, ci vediamo a piazza Fera”, aprì lo sportello, scese e fece il giro intorno all’auto passando per la parte posteriore, quindi andò deciso ad aprire lo sportello anteriore lato guida della vettura che avevano appena tamponato. Intanto Marcello ignorando le intenzioni di Vespino ma riponendo in lui fiducia smisurata e totale aveva messo, grattando clamorosamente, la retromarcia. Lo zio Luigi lo guardava sempre in versione statua di sale, la macchina per fortuna ancora camminava, era quindi andato indietro poco più di un metro tirandosi dietro con stridente fragore di plastica e lamiera il paraurti posteriore del malcapitato e quindi era scartato sulla destra e si era velocemente allontanato dal luogo del delitto per fare il giro dell’isolato e ritrovarsi al luogo convenuto. Vespino aprendo lo sportello, in auto c’era una signora sola alla guida, l’aveva letteralmente ubriacata gridandole in modo concitato:
“Mamma mia signora, che è successo? Signora, tutto bene? Si è fatta male? Non si muova, non si muova, il colpo di frusta! L’importante è che non si è fatta niente! Il colpo di frusta! Si muova dolcemente!” e intanto si sbracciava, si agitava, la rincoglioniva di urla e parole e faceva scudo con il suo corpo come fanno a rugby per proteggere il giocatore che porta palla, impedendole di uscire dall’auto e di guardarsi indietro e soprattutto di scorgere Marcello che scappava vigliaccamente, senza esitazioni ma come in punta di piedi. Quando l’amico vide con la coda dell’occhio che la macchina verde della mamma di Marcello era ormai qualche metro più avanti, fece due passi indietro, intanto si era formato un capannello di persone, e tranquillamente si girò e si avviò a piedi verso il solito angolo della piazza dove si trovavano quasi tutte le sere.
La signora, bassa, sovrappeso, sui cinquant’anni, occhiali tondi e capelli ricci finto biondi, la classica mamma di famiglia, con addosso un inguardabile vestito a grandi fiori, scese ancora sotto choc e andò verso la poppa della vettura. Guardò verso il vuoto, verso il nulla ed esclamò: “Ma chi mi è venuto addosso? Dov’è il signore che mi ha tamponato?” e continuava a guardarsi attorno incredula e reggendosi il capo con la mano destra.
La macchina dei nostri prodi era seriamente danneggiata, migliaia di bigliettoni di danni. Il radiatore ammaccato e gocciolante liquido refrigerante, i fari in frammenti, il muso rientrato come quello di un bulldog, il paraurti ridotto a un’opera d’arte astratta.
Marcello raggiunse Vespino, che salì al volo e vedendo lo sguardo interrogante dell’amico alla guida disse:
“Non ci ha capito niente. Vai, vai.”
Poi i due non si guardarono e non si dissero più nulla. Di tanto in tanto scoppiavano a ridere fino alle lacrime. Arrivarono sotto casa dell’imbranato pilota, scesero e guardarono sconsolati la prua dell’auto piangente. Rimasero lì zitti per un po’.
Ricordandosi che lo zio Luigi aveva assistito basito a tutta la scena nel pomeriggio Marcello chiamò i suoi e scelse la strategia della mezza confessione. Disse loro che aveva fatto un giro nello spiazzo davanti casa con la macchina per giocare a fare il grande ed aveva colpito un muretto. Rimbrottato e perdonato. Poi chiamò lo zio Luigi e lo supplicò in ginocchio e in varie lingue che era sinceramente pentito, che non lo avrebbe più fatto, che lui gli aveva sempre voluto molto bene, insomma di non rovinarlo.
Lo zio alla fine annuì alla cornetta, senza parlare, Marcello capì comunque che era andata bene. O almeno lo sperò.
La mattina dopo a scuola i due raccontarono dei testacoda, delle acrobazie alla Remy Julienne, che avevano caricato due ragazze e le avevano portate al mare e lì il racconto si arricchì di prodezze non strettamente automobilistiche e infine descrissero con gran dovizia di particolari anche un fantomatico inseguimento con la polizia che erano riusciti a seminare grazie alla guida spericolata di Marcello. Ovviamente glissarono clamorosamente sull’incidente da fessi intergalattici. I due avrebbero fatto impallidire Oscar Pettinari, il personaggio di Verdone emulo borgataro di Sylvester Stallone che raccontava di aver affrontato un leone a mani nude, preso per la coda un pitone di dieci metri e altre simili amenità.
Mentre sparavano questa incredibile mole di balle si avvicino lei.
Lo guardò, con un mezzo sorriso e gli disse:
“Bella la bravata della macchina, ieri. Ho pensato - guarda cosa non farebbe Marcello per farsi notare… -” si girò e si allontanò sui suoi tacchi alti, sui suoi polpacci affusolati, lasciandosi dietro la solita scia di profumo.
E lui pensò: - Si, prendi pure in giro, ti piaccio da morire ma non lo vuoi ammettere. - il solito pugno alla bocca dello stomaco. La vide allontanarsi, serrò per un attimo le labbra, poi si girò e continuò:
“A un certo punto ci avevano quasi affiancato mi sono buttato sulla sinistra fra un camion e una auto parcheggiata e mi sono infilato in una stradina laterale.”
di Giuseppe Gatto
2 commenti:
Giusè, hai la capacità di farmi piangere e di farmi ridere
bellissima, davvero!
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