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mercoledì 22 aprile 2015
Il Cavalier Branzetti (every day is a special day) - di G. Gatto
domenica 14 agosto 2011
REMY JULIENNE E LO ZIO LUIGI (di Giuseppe Gatto)
Sara si dava un sacco di arie. Ti guardava sempre dall’alto in basso. Quando i ragazzi più grandi venivano a prenderla all’uscita da scuola, poi, aveva un sorriso ancora più sornione e beffardo del solito. Quasi volesse dire: – io non sono una mocciosa come voi –
Marcello aveva sedici anni, faceva la terza liceo ed erano compagni di classe. Il giorno seguente le avrebbe dato una piccola lezione. Anche lui era “grande”, ed era coraggioso, spavaldo, diverso da quei bamboccioni che la circondavano.
“Vespino, i miei vanno via due giorni” disse al suo compagno di banco
“E quindi?”
“E quindi so dove lascia le chiavi della macchina mia mamma”
Vespino non rispose e scosse la testa:
“Non ti seguo”
“Veniamo a scuola in macchina!”
“Si, così ci fermano e ci si bevono con la macchina e tutto”
“Dai, io sembro più grande, non ci fermano”
Vespino si diede una manata sulla fronte
“Ma innanzitutto la sai guidare?!?”
“Ma si, non sarà molto più difficile della moto!”
“Non sarà?!? La sai guidare o non la sai guidare?”
“L’ho guidata qualche volta in campagna, dai nonni”
“Si, in prima e per venti metri, me lo ricordo!”
“Vabbè ma il concetto è quello!”
“Tu sei scemo”
La mattina dopo, più presto del solito, prese le chiavi, riuscì ad accendere l’agognato quadriruote scatolato e riuscì persino a partire, un po’ al trotto, con l’utilitaria dell’ignara genitrice. Concentrato come un cecchino bosniaco, con gli occhi stretti sulla strada, i muscoli tesi, le braccia e le mani rigide sullo sterzo, la goccia di sudore di ordinanza lungo la schiena e non inserendo mai marce superiori alla terza, riuscì ad arrivare sotto casa dell’amico. C’era uno spiazzo sul quale affacciava la grande finestra della sua cucina, al terzo piano. Diede due colpi di clacson e comparve Vespino incredulo, due secondi dopo apparve anche la mamma, che immediatamente chiese:
“Ma Marcello ha già la patente?”
“Eeeh, si, certo, a scuola lo hanno bocciato due volte, ha già fatto diciott’anni…” e intanto lanciò uno sguardo assassino verso la macchina e il suo pilota. Che sorrideva a trentadue denti. Il pilota. E forse anche un po' la macchina.
Poi scese giù con il volto tirato, salì in auto. Appena vide Marcello felice e sorridente come una pasqua scoppio a ridere pure lui e lo salutò con un:
“Ma vaffanculo và, tu sei pazzo!”
“Si va a scuolaaa!” rispose Marcello eccitato e partì con qualche lieve incertezza e sussulto.
“C’è la frizione che stacca male…” si giustificò
“Si, si, come no. Vai piano sennò tiro il freno a mano!” rispose l’amico.
Giunsero nel cortile dell’Istituto un quarto d’ora prima della campanella d’ingresso. Erano quasi tutti già lì, in diversi capannelli che chiacchieravano, fumavano, aspettavano l’ultimo momento possibile prima di entrare e cominciare la faticosa giornata. Il classico salotto pre-scolastico. C’erano molti gruppetti, spesso maschi con maschi e femmine con femmine, secondo i più classici stereotipi i primi parlavano di pallone, di quisquilie e di ragazze e le seconde di quisquilie e di ragazzi. Uguale insomma, tranne il pallone.
L’arrivo fu come Marcello aveva previsto: trionfale. Sembrava Annibale di ritorno dalle guerre puniche. Abituati a vederlo arrivare su un Ciao dalla marmitta rumorosa e scoppiettante, spesso su una ruota sola, vederlo presentarsi a passo d’uomo in auto fece un certo effetto. Anche perché quasi nessuno al liceo aveva ancora la patente! Con gesti studiati e appena un tantino teatrali parcheggiarono a bella posta a pochi metri dall’ingresso, scesero e cominciarono a salutare i compagni che si avvicinavano.
Marcello aprì la sua ruota e si improvvisò pavone.
“Ma certo che la so guidare”, “Si, la prendo spesso”, “I miei? Non mi dicono nulla”, “La polizia? Figurati se riesce a fermarmi”. Marcello stava snocciolando un patetico campionario di frasi puerili. Poi la vide, i loro sguardi si incrociarono. Un paio di secondi, poi lei tirò dritto verso l’ingresso. Con quei suoi capelli lunghi, neri dai riflessi blu notte, quegli occhi verdi e luminosi, quei suoi vestiti leggeri e svolazzanti che si adagiavano come onde sulle sue curve. E con quell’atteggiamento di consumata spavalderia di chi sa di piacere ai ragazzi, forse anche agli uomini.
Lui senti il solito pugno allo stomaco, glielo faceva sempre quando la vedeva. Però oggi il protagonista era lui, aveva decine di ragazzi e ragazze attorno, con i loro urletti e le loro risatine, si sentiva molto Arthur Fonzarelli appoggiato al cofano della Cadillac nera con le fiammate gialle sulle portiere. E poi era riuscito ad attrarre la sua attenzione. Si sentiva bello e guascone. Certo non capì se nello sguardo di lei ci fosse ammirazione o compatimento ma sperò nella prima ipotesi. Deglutì.
“Vespino, salta su, si parte”
“Come? E la scuola?”
“Oggi niente scuola” e poi rivolto a tutti “Ciao ragazzi, abbiamo un po' di giri da fare”
L’amico salì di nuovo a bordo.
“Sei un pazzo, sei un pazzo… e io che ti vengo dietro!”
Prima tappa il campo di calcio in terra battuta poco lontano da scuola dove cominciarono a provare le sbandate da rally. In seconda marcia, ruotando di colpo lo sterzo e tirando il freno a mano. Dopo qualche tentativo maldestro riuscirono a fare dei testa coda notevoli. Urlavano, erano felici, ridevano e avevano alzato una tale nuvola di terra polverosa che sembrava di scorgere l’arrivo del settimo cavalleggeri a difesa del solito fortino assaltato dagli Apache. Poi Marcello prese una stradina sterrata e salì con le due ruote del lato destro sul fianco in salita del terreno e cominciò a urlare: “Remy Julienne, Remy Julienne!”, un abile stunt man degli anni ’80 che questo gioco lo faceva per davvero, mettendo la macchina su due ruote, ma senza appoggiarle ad alcuna strada! Adrenalina a mille ed entusiasmo alle stelle. Quando hai sedici anni, in piena tempesta ormonale ma con la testa ancora di un bambino ti diverti con poco. Gli ingredienti c’erano tutti: la zingarata, il fascino del proibito, del pericolo, il furto dell’auto, le acrobazie. E poi lui e Vespino si volevano bene, erano amici sin da piccoli, ne avevano condivise tante e questa bravata della macchina era una di quelle cose che li faceva sentire mostruosamente complici e li trasformava in due supereroi. In quel momento si sentivano quasi onnipotenti, alti due metri e a prova di proiettile. La macchina superò brillantemente tutte le prove: era decisamente sporca ma ancora sana. Freni, semiassi, motore, incredibilmente aveva resistito tutto.
“Andiamo in centro, ci fermiamo davanti al bar e ci prendiamo un gelato al limone”
Vespino fece si con la testa, aveva il sorriso che sembrava più una paresi anche perché nei vari test di robustezza della povera utilitaria si era a tratti anche un po’ cacato sotto dalla paura!
Nel traffico Fonzie era molto più guardingo e cercava di mantenere alta la concentrazione, in pochi minuti avevano quasi arrotato una vecchietta, quasi abbattuto un cassonetto della spazzatura e quasi investito frontalmente un autobus. Ma era andata sempre bene.
Certo non poteva durare a lungo.
Stavano percorrendo via Roma: una strada bella trafficata con due corsie più la fila di macchine parcheggiate.
A un certo punto Marcello disse all’amico:
“Cazzo, più avanti c’è il negozio del cugino di mamma, zio Luigi, il fotografo! Se poco poco è sulla porta e mi vede alla guida della macchina sono F O T T U T O !”
“E infatti è sulla porta che sta fumando” continuò la frase Vespino
“Giù” disse Marcello e contemporaneamente i due si acquattarono per non farsi vedere, si scambiarono un’occhiata con i volti a pochi centimetri di distanza e si dissero con gli occhi sgranati e solo con lo sguardo: - Chi cazzo sta guidando?!? - il tempo di pensarlo e non fecero nemmeno in tempo a rialzare le teste. Marcello si era appiattito sul sedile ma aveva continuato ad andare avanti come niente fosse. Fortissimo rumore di lamiere e vetri. Tamponarono violentemente una grossa vettura che aveva frenato davanti a loro. Esattamente davanti al negozio di Luigi che riconobbe entrambi, resto impietrito a guardare la scena surreale e gli cadde lentamente la sigaretta dalla bocca.
- Cos'è il genio? È fantasia, intuizione, colpo d'occhio e velocità di esecuzione! – così sentenziava il Perozzi in “Amici Miei” e così fu Vespino. Semplicemente geniale.
Disse velocemente:
“Li distraggo io tu vattene, ci vediamo a piazza Fera”, aprì lo sportello, scese e fece il giro intorno all’auto passando per la parte posteriore, quindi andò deciso ad aprire lo sportello anteriore lato guida della vettura che avevano appena tamponato. Intanto Marcello ignorando le intenzioni di Vespino ma riponendo in lui fiducia smisurata e totale aveva messo, grattando clamorosamente, la retromarcia. Lo zio Luigi lo guardava sempre in versione statua di sale, la macchina per fortuna ancora camminava, era quindi andato indietro poco più di un metro tirandosi dietro con stridente fragore di plastica e lamiera il paraurti posteriore del malcapitato e quindi era scartato sulla destra e si era velocemente allontanato dal luogo del delitto per fare il giro dell’isolato e ritrovarsi al luogo convenuto. Vespino aprendo lo sportello, in auto c’era una signora sola alla guida, l’aveva letteralmente ubriacata gridandole in modo concitato:
“Mamma mia signora, che è successo? Signora, tutto bene? Si è fatta male? Non si muova, non si muova, il colpo di frusta! L’importante è che non si è fatta niente! Il colpo di frusta! Si muova dolcemente!” e intanto si sbracciava, si agitava, la rincoglioniva di urla e parole e faceva scudo con il suo corpo come fanno a rugby per proteggere il giocatore che porta palla, impedendole di uscire dall’auto e di guardarsi indietro e soprattutto di scorgere Marcello che scappava vigliaccamente, senza esitazioni ma come in punta di piedi. Quando l’amico vide con la coda dell’occhio che la macchina verde della mamma di Marcello era ormai qualche metro più avanti, fece due passi indietro, intanto si era formato un capannello di persone, e tranquillamente si girò e si avviò a piedi verso il solito angolo della piazza dove si trovavano quasi tutte le sere.
La signora, bassa, sovrappeso, sui cinquant’anni, occhiali tondi e capelli ricci finto biondi, la classica mamma di famiglia, con addosso un inguardabile vestito a grandi fiori, scese ancora sotto choc e andò verso la poppa della vettura. Guardò verso il vuoto, verso il nulla ed esclamò: “Ma chi mi è venuto addosso? Dov’è il signore che mi ha tamponato?” e continuava a guardarsi attorno incredula e reggendosi il capo con la mano destra.
La macchina dei nostri prodi era seriamente danneggiata, migliaia di bigliettoni di danni. Il radiatore ammaccato e gocciolante liquido refrigerante, i fari in frammenti, il muso rientrato come quello di un bulldog, il paraurti ridotto a un’opera d’arte astratta.
Marcello raggiunse Vespino, che salì al volo e vedendo lo sguardo interrogante dell’amico alla guida disse:
“Non ci ha capito niente. Vai, vai.”
Poi i due non si guardarono e non si dissero più nulla. Di tanto in tanto scoppiavano a ridere fino alle lacrime. Arrivarono sotto casa dell’imbranato pilota, scesero e guardarono sconsolati la prua dell’auto piangente. Rimasero lì zitti per un po’.
Ricordandosi che lo zio Luigi aveva assistito basito a tutta la scena nel pomeriggio Marcello chiamò i suoi e scelse la strategia della mezza confessione. Disse loro che aveva fatto un giro nello spiazzo davanti casa con la macchina per giocare a fare il grande ed aveva colpito un muretto. Rimbrottato e perdonato. Poi chiamò lo zio Luigi e lo supplicò in ginocchio e in varie lingue che era sinceramente pentito, che non lo avrebbe più fatto, che lui gli aveva sempre voluto molto bene, insomma di non rovinarlo.
Lo zio alla fine annuì alla cornetta, senza parlare, Marcello capì comunque che era andata bene. O almeno lo sperò.
La mattina dopo a scuola i due raccontarono dei testacoda, delle acrobazie alla Remy Julienne, che avevano caricato due ragazze e le avevano portate al mare e lì il racconto si arricchì di prodezze non strettamente automobilistiche e infine descrissero con gran dovizia di particolari anche un fantomatico inseguimento con la polizia che erano riusciti a seminare grazie alla guida spericolata di Marcello. Ovviamente glissarono clamorosamente sull’incidente da fessi intergalattici. I due avrebbero fatto impallidire Oscar Pettinari, il personaggio di Verdone emulo borgataro di Sylvester Stallone che raccontava di aver affrontato un leone a mani nude, preso per la coda un pitone di dieci metri e altre simili amenità.
Mentre sparavano questa incredibile mole di balle si avvicino lei.
Lo guardò, con un mezzo sorriso e gli disse:
“Bella la bravata della macchina, ieri. Ho pensato - guarda cosa non farebbe Marcello per farsi notare… -” si girò e si allontanò sui suoi tacchi alti, sui suoi polpacci affusolati, lasciandosi dietro la solita scia di profumo.
E lui pensò: - Si, prendi pure in giro, ti piaccio da morire ma non lo vuoi ammettere. - il solito pugno alla bocca dello stomaco. La vide allontanarsi, serrò per un attimo le labbra, poi si girò e continuò:
“A un certo punto ci avevano quasi affiancato mi sono buttato sulla sinistra fra un camion e una auto parcheggiata e mi sono infilato in una stradina laterale.”
sabato 10 aprile 2010
IL BOB A DUE (di Giuseppe Gatto)
A questo punto Osvaldo è quasi completamente sveglio. Va a vestirsi. Non trova le mutande, poi non trova i calzini, poi sbaglia la camicia, poi non trova i pantaloni. Alla fine riesce a far tutto ed è pronto e bello come il sole. O quasi. Passa davanti lo svuotatasche in salotto e parte il rito: ogni giorno dimentica qualcosa quindi è essenziale la sera lasciare tutto lì, in bella mostra, per poter poi rifare al mattino il percorso inverso nelle varie tasche di giacca e giaccone. Le chiavi di casa, le chiavi della macchina, le chiavi dell’ufficio, il telefonino, che regolarmente è con poca batteria, il portafoglio, il portamonete, alcune carte con degli appunti, le mentine per l’alito, gli occhiali da sole. Quindi la ventiquattrore nera con il pc portatile e via verso nuove avventure. Tempo necessario per tutta la procedura: da un’ora a un’ora e mezza. In casi di emergenza quali sveglia che non ha suonato perché caricata male la sera prima, sveglia che ha suonato ma è stata spenta definitivamente, sveglia che ha suonato ma i bimbi avevano abbassato il volume, appuntamenti o volo aereo al mattino presto, e facendo in ogni caso i salti mortali, i tempi possono ridursi al massimo a quarantacinque minuti.
Non un minuto di meno.
Un giorno Osvaldo comprese il significato profondo della parola “incubo”. Una tegola stava per abbattersi sulle sue tranquille e paciose pre-mattinate.
Successe che la baby sitter, una ragazza polacca giovane e avvenente, classica bellezza dell’est europeo, bionda con gli occhi azzurri, alta e snella, ma comunque molto brava anche con i bambini, ebbe un’accesa discussione con un palo della luce, per strada. Lei era sui pattini e il palo non era riuscito a evitarla. Rotula e legamenti del ginocchio sinistro andati, ne avrebbe avuto per tre mesi almeno. I nonni erano fuori città, non avevano nessun altro tipo di possibile aiuto esterno e la moglie svolgeva un lavoro importante e per il quale era costretta a uscire di casa molto presto. Entro le sette.
Normalmente alle sette e trenta arrivava la baby sitter e mentre Osvaldo circolava lentamente per casa rigorosamente in pigiama senza offendere né il comune senso del pudore né attentare alle grazie della Mary Poppins bionda, lei si occupava come una fatina di Alessandro e Paolo, quasi quattro anni il primo, uno il secondo. Li svegliava, li lavava, faceva far loro colazione, e intanto li faceva ridere, cantava loro le canzoncine. Ne posava uno e ne prendeva un altro e mentre uno giocava vestiva l’altro e poi lasciava giocare il secondo e vestiva il primo. Una Dea Kali dell’accudimento. Sempre con il sorriso sulle labbra e una pazienza da competizione. Osvaldo nella fase “svuotatasche” trovava quindi anche il marmocchio più grande perfettamente pronto, lavato, colazionato e grembiulinizzato, con addosso il cappottino blu e il cappello di lana beige, lo zainetto con la merenda in una mano e un gormita nell’altra che gli sorrideva e gli tendeva le braccine. Il moccioso, non il gormita. E lui compiva il faticoso ruolo di padre accompagnandolo, quando erano quasi le nove, all’asilo a poche centinaia di metri da casa. Poi andava al lavoro. Il piccolo Paoletto restava invece a casa con la valchiria.
Ma la vichinga ebbe appunto l’incontro ravvicinato con il palo. La ricerca di una sostituta in tempi rapidi fu vana. E poi come fai a lasciare una creatura a casa con una che non conosci bene? Se ne sentono di tutti i colori! Scattò il piano B: ricerca di un asilo nido anche per il più piccolo.
“Io ti preparo i vestitini di entrambi, tu li lavi, gli fai fare colazione, li vesti e li porti all’asilo, qual è il problema?” disse la moglie a Osvaldo.
E lui sentì distintamente il soffitto della stanza crollargli rumorosamente addosso.
“Da solo?!?”
“Non ci sono alternative caro. E poi non è mica la fine del mondo!”
“Ma potresti rimanere ancora a casa tu per un po’…”
“Non se ne parla assolutamente. Sono già stata a casa fin troppo. Tu sei il papà, te lo ricordi? Sapessi quante volte sono stata sola con tutti e due. Non è mica difficile come credi”
Infatti. Non era così difficile come lui credeva.
Era decisamente molto peggio.
La moglie era già quasi pronta quando alle sei e trenta Paoletto si svegliò, era nel lettone, e cominciò ad agitarsi come un’anguilla fuori dall’acqua. Erano già diversi giorni che il piccolo, infastidito dallo spuntare dei primi dentini, si rifiutava categoricamente di dormire nel suo lettino. Osvaldo guardò la sveglia, rischio un coccolone, poi lo abbracciò e cercò di consolarlo. Intanto sentì la porta che si chiudeva e la moglie che usciva. A ritmi alternati sonno-veglia: cinque minuti sonno, cinque minuti pianto, cinque minuti sonno, cinque minuti pianto, riuscì alla bell’e meglio a portare il piccolo fino alle sette e trenta, poi rassegnato e assonnato si alzò. Quasi nello stesso istante il più grande lanciò un urlo e scoppiò a piangere. Un brutto sogno forse. Scese dal suo lettino e andò verso il lettone dei genitori:
“Dov’è mamma?”
“E’ andata a lavorare amore, mettiti nel lettone, puoi dormire ancora un pochino. Intanto faccio mangiare Paolo”
“Dov’è Inglid?”
“Ingrid si è fatta male al ginocchio ricordi?”
Seh, buonanotte, un po’ l’assenza della mamma, un po’ quella della tata, un po’ la gelosia, il piccolo Alessandro cominciò a urlare e piangere come una vite tagliata che voleva la mamma e non voleva dormire … e così facendo per fortuna si riaddormentò. Osvaldo tirò un sospiro di sollievo e andò in cucina, sempre con il piccolo in braccio. Con una mano sola riuscì a bere un po’ di latte, senza i soliti biscotti, preparare il biberon al cucciolo e fare il caffè. Quindi mise il bimbo sul seggiolone e gli piazzò in mano un bel biscotto plasmon. L’idea era stata buona, il piccolo si era concentrato sul biscotto e aveva smesso di lamentarsi a sua volta. Primo momento di panico. La frettolosa ingestione del latte e del caffè aveva dato il via perentorio e con maggior velocità rispetto al solito, al count down intestinale. Sgranò di colpo gli occhi, irrigidì la schiena, diede un rapido sguardo al piccolo e uno alla porta della cucina cercando la soluzione più efficace! Prese probabilmente la miglior decisione possibile. Agguantò il seggiolone da dietro, con tutto il suo contenuto che diceva “Maa-mma, maa-mma!” e lo spinse di corsa e con un importante gesto atletico per il corridoio e fino al bagno. Lo sprint gli sarebbe certamente valso la qualificazione agli ottavi di finale nel Bob a due alle ultime Olimpiadi invernali di Vancouver. Piazzò il bob proprio in mezzo alla porta aperta, e si lasciò esplodere sul water mentre il volto dell’innocenza lo fissava divertito sgranocchiando il biscotto e ridendo di gusto: “Maa-mma!”.
“Io sono papà!” gli disse Osvaldo fiero.
La riunione di gabinetto fu molto più rapida del solito. Le operazioni di pulizia e abluzione ridotte al minimo sindacale, quindi di nuovo con il bob in cucina, questa volta a ritmi più da allenamento che da gara. Il pargolo rideva felice. Il biberon con il latte era pronto quindi prese il fagotto dalla sua posizione di guida e lo portò sul divano dove gli diede il latte facendolo distrarre con i cari vecchi cartoni animati di Will Coyote. Si erano fatte le otto e quindici, urgeva svegliare il grande. Prima però cambio di pannolino e lavaggio del morbido culetto del cagone, con tutto l’ovvio campionario di orrore, disgusto e ripugnanza tipico di chi non è abituato a queste pratiche da indomiti samurai. Operazione spregevole ma tutto sommato conclusa con successo e senza gravi imprevisti. Si ripromise però di chiedere alla pediatra se fosse normale che un cucciolo così piccolo riuscisse a produrre simili quantità industriali di cacca! Per riuscire a svegliare il grande ci vollero poi quindici minuti buoni con il piccoletto che gli gattonava sopra e gli tirava i capelli e Osvaldo che incessantemente lo chiamava “Alessaaaaandrooooo!”. Niente.
Alle otto e trentacinque il piccolo più grande aprì gli occhi e disse nell’ordine: “Dov’è mamma?” poi “Dov’è Inglid?” quindi “Io non mi alzo mai!” e infine “Io non faccio colazione, mai, mai, mai!”
Osvaldo lo prese di peso cristonando mentre lui continuava a frignare, abbandonò l’altro nel lettino e lo portò a fare pipì e poi in cucina dove gli mise sotto il naso al volo due biscotti e un bicchiere di latte intimandogli un poco paterno: “Mangia! Hai sette minuti!”. Poi sempre benedicendo e osannando ad alta voce l’altissimo andò a prendere l’aquilotto che intanto aveva cominciato a piangere. La famiglia, mamma a parte, era dunque riunita in cucina, erano le otto e quarantacinque ed erano ancora tutti e tre in pigiama.
Fra suppliche e minacce Osvaldo riuscì a trovare un minimo di intesa con il capriccioso grande che pur riottoso finì la colazione, quindi tutti a vestirsi. Circo Barnum, numero degli acrobati bulgari: tutti per terra sul tappetone della cameretta: una maglietta al piccolo, una maglietta al grande, le calze a papà, andare a riprendere il piccolo che intanto è scappato verso il bagno obiettivo il rubinetto del bidè (il precoce già camminava e pure alla svelta!). Chiudere le porte dei bagni e della cameretta, pantalone al piccolo, pantalone al grande, camicia a papà, rimettere il pantalone al grande (che intanto se lo era tolto). Insomma un pezzo a uno, un pezzo all’altro alle nove erano finalmente tutti e tre vestiti, con i cappottini, i cappellini, la ventiquattrore, lo zainetto, le scarpe, le chiavi, il telefonino, il gormita, le altre chiavi, il ciucciotto… tutto l’armamentario d’ordinanza incredibilmente al suo posto.
Un miracolo. O un incubo a seconda dei punti di vista.
Il resto fu ordinaria amministrazione, prima un asilo, poi l’altro, lite in entrambi i casi con dei passanti per via dell’auto parcheggiata a cappella e in diagonale sul marciapiede
“E’ un’emergenza, la tolgo subito, siamo in ritardo!”,
quindi l’arrivo in ritardo in ufficio con un filino di stress addosso.
rispose minaccioso:
“Sono sfinito. Io la mia giornata di lavoro l’ho già fatta!”
E l’altro sorrise, guardò l’orologio, non disse nulla e pensò:
Il misero tapino ancora non sapeva che nei soli tre giorni successivi, causa febbre alta del piccolino, sarebbe rimasto a casa a fare il mammo a tempo pieno e avrebbe così avuto modo di confrontarsi anche con altre specialità olimpiche: pianto a dirotto notturno, occhiaie da sonno, vomito a spaglio con effetto “Esorcista”, diarree atroci con tracimazione di pannolino, body e pigiamino, rifiuto categorico della pappa con sputo a spruzzo o lancio a catapulta con quelle belle manine paffute, pipì a idrante durante il pit stop pannolino.
Che tesori che sono questi morbidi fagottini.
“Bello amore di papà! … E io che volevo prendere un Labrador!”
mercoledì 11 marzo 2009
ENRICO (di Giuseppe Gatto)
Sentii abbaiare in modo insistente.
Mi affacciai dal balcone che dava sul cortile e vidi un cane che mi sembrò di riconoscere. Quasi contemporaneamente suonò il campanello d’ingresso.
Andai ad aprire.
“Chi è?”
“Enrico”
Stupito aprii lentamente la porta, pensavo a uno scherzo ma avevo riconosciuto la voce. Mi trovai proprio di fronte al mio vecchio amico. Vecchio perché non ci vedevamo da tanto, in realtà il ragazzo alto e magro che avevo di fronte era più giovane di me di una decina d’anni almeno. Bello come lo ricordavo, con i capelli lisci e neri un po’ lunghi sulla fronte, il sorriso quasi beffardo e l’aria scanzonata di sempre. Camicia chiara, un maglione leggero blu, il jeans e le adidas bianche.
“Il tuo cane! – dissi emozionato – avevo capito che era il tuo cane, ma come …”
“Si, è lui” annuì sorridendo.
Entrò, ci abbracciammo.
“Martina, … guarda chi c’è!”
A Martina quasi cadde il bicchiere di mano. Enrico la salutò, si presentò a Franca e si aggiunse alla degustazione estemporanea di salumi, formaggi e vino tinto. Restò in piedi, appoggiato con la schiena alla credenza, scostandosi di tanto in tanto i capelli dalla fronte, un suo gesto classico.
“Come stai?” gli chiesi avvicinandomi con ancora l'espressione vagamente attonita.
“Bene, … non mi posso lamentare” poi si affacciò dal balcone e fece un fischio al pastore tedesco aggiungendo un “non ti allontanare!” che il quadrupede sembrò comprendere alla perfezione.
Lo guardai ancora, allargai le braccia e gli chiesi:
“Ora cosa fai?”
“Vado in giro per il mondo. Ieri per esempio ero al Louvre, me lo sono girato tutto già tre volte. Peccato che Argo non lo facciano entrare”
“A Parigi?”
“Si, ci vado spesso. E’ molto bella. E poi in altri cento posti…”
Il citofono suonò di nuovo.
Martina andò a rispondere, erano altri nostri amici.
“Abbiamo visto la luce della cucina accesa …”
“Avete fatto bene, salite! C’è una sorpresa!”
I tre entrarono nel portone, Edoardo un attimo prima di varcarne la soglia si girò verso il cortile e lanciò uno sguardo in direzione del cane che lo ricambiò con le orecchie tese.
Arrivarono al pianerottolo del secondo piano con il fiatone, incuriositi, la porta di casa era aperta, entrarono e davanti a quella della cucina c’era Enrico in piedi che sorrideva. Edoardo, suo fratello, gli corse incontro e lo strinse a sè con quanta forza avesse in corpo.
Dopo gli abbracci, i sorrisi e le pacche sulle spalle ci trasferimmo tutti in salone, cosa non rara in quella casa che, nelle notti durante le vacanze, diventava spesso una specie di pub. Martina e Franca avevano preso i bicchieri e tirato fuori dal frigo il Carpenè Malvolti, intanto si erano materializzati i vassoi dei dolci di natale ricoperti al miele, fatti da mia nonna. Non ero ancora riuscito a finirli nonostante tutta la mia buona volontà. Sul tavolino troneggiava poi il tagliere, direttamente trasferito dalla cucina, con il formaggio, il salame in parte già affettato e il pane.
Sprofondati sugli accoglienti divani verdi disposti a ferro di cavallo ci scambiammo sguardi stupiti e felici.
Fu Enrico a rompere il silenzio:
“Stavo raccontando a Flavio dei miei giri. Non mi fermo mai nello stesso posto per più di due, tre giorni. Ho visto la California, il Gran Canyon, San Francisco. Ho attraversato l’Africa in lungo e in largo, sono stato sulla barriera corallina australiana… insomma, come diceva quello di Blade Runner – e scoppiò a ridere – ho visto cose che voi umani non potete nemmeno immaginare …”
“Io ho ancora a casa la tua foto sulla Yamaha blu, con il foulard al collo, i Ray Ban e la gnocca che ti portavi dietro…” disse Giacomo
“Beh, ora la moto non me la lasciano proprio usare…”
“E i furti a quel povero contadino?”, era Vincenzo.
Risero di nuovo tutti. Tutti tranne me.
“Capra e pannocchie, potrebbe essere il titolo di un film… e poi scappammo con la Citroen …”
“… Di mia mamma – interruppi io – e chi se lo scorda!”
“Avevamo coperto la targa con un asciugamano da spiaggia…”
“Eh, il mio asciugamano e poi è toccato sempre a me ripulire i quintali di pallette di cacca nel bagagliaio!” ribadii
“E la sera falò con grigliata di carne… e pannocchie” rise rumorosamente Enrico
“Ma come abbiamo potuto!” continuavo a sorridere ma con la testa fra le mani
“E quella nottata passata a fare le battaglie a olio e pomodori?”
“Le munizioni venivano dalla cantina di tuo nonno – disse Edoardo rivolto a me – e il giorno dopo mio padre non capiva perché la porta del garage sembrasse una pizza napoletana…”
“Certo non avevamo proprio un cazzo da fare!” osservò Giacomo
“Vedila così, ci si divertiva con poco... – riprese Enrico – adesso invece giro un sacco, però non riesco a parlare con nessuno. Mi sento un po’ solo ecco. Però pensavo peggio…”
Vincenzo era uscito dalla stanza per rientrarvi subito dopo:
“Ho messo l’acqua sul fuoco…” fece un giro di sguardi e sentenziò “ok, carbonara per tutti” e tornò in cucina.
“E quando per essere riformato ci mancò poco che ti amputassi le dita del piede?” disse ancora Giacomo
“E chi ci restava nei paracadutisti! Comunque – e rise di nuovo – zoppicai per qualche giorno ma tornai a casa!” rispose Enrico. Ridevamo tutti.
“E i numeri da circo che facevate al mare con il monosci?”
Enrico scosse la testa e sospirò.
Argo raspò con le zampe alla porta. Enrico si alzò
“Devo andare” disse e fece un cenno con la mano come per dire di non alzarci. Raggiunse il suo cane, sulla porta si voltò e ci salutò ancora.
Solo allora ci guardammo tutti impietriti, in silenzio, senza riuscire a muovere un muscolo o dire una parola. Enrico se ne era andato di nuovo.
Come molti anni prima, quando ci aveva lasciato all'improvviso e senza dire nulla, togliendosi la vita. Era il nostro mito. Quello che aveva successo con le donne, che sfidava il mondo con il sorriso in faccia, quello sempre in vena di scherzi, che non aveva paura di nessuno. E non aveva avuto paura nemmeno della morte. Aveva trentatré anni, dieci più di noi, quando lo trovarono chiuso in bagno, follemente appeso a una cintura e con in tasca due lamette. Aveva proprio deciso di partire, di andare. E rimanere per sempre giovane, bello e sfrontato. Lasciando a noi il peso di vivere e invecchiare anche al posto suo. In quelle feste di natale lo vedemmo e gli parlammo per ore. Non fu una cazzo di allucinazione.
Ma non lo raccontammo mai a nessuno.
giovedì 7 agosto 2008
CHIODI (di Giuseppe Gatto)
Urla.
“Presto, presto, Fabrizio prendi la barella…”
“Spostatevi, forza! Non potete stare qui…”
Concitazione.
“Voi due, venite ad aiutarci!”
“Codice rosso! Angela fai chiamare subito Stezzari, bisogna preparare la sala operatoria: il paziente è grave”
“Forza, al tre. Uno, due, tre. Dai, dai…”
Grande concitazione.
L’ambulanza era arrivata all’ingresso del Pronto Soccorso, ostruito dalla solita auto parcheggiata fuori posto. Ne era seguito un vivace trambusto. Gli infermieri erano saltati fuori dal veicolo urlando, sbracciandosi e chiamando in aiuto altri colleghi.
Dietro l’ambulanza si era materializzata un’auto della polizia giudiziaria, da cui erano scesi tre uomini in divisa ad una velocità da telefilm americano.
Sulla barella un uomo enorme con il volto ed il petto coperti di sangue. Spalle da guerriero spartano, alto quasi due metri, la testa a forma di cubo, un brionvega da dodici pollici con i capelli a spazzola biondi. Un armadio di muscoli con la mascella quadrata, apparentemente di pietra, due prosciutti al posto delle braccia. Per riuscire a tirarlo fuori dall’ambulanza c’erano volute quattro persone.
La barella, cigolando, correva per i corridoi grigi e beige verso la sala operatoria. A seguire i poliziotti, con una mano sulla fondina della pistola ed una sul cappello. L’uomo aveva un chiodo da muratore, di quelli belli grossi, infilato in mezzo alla fronte, ben più della metà. Poco più in alto delle sopracciglia.
Era uno straniero, vivo e in forte stato confusionale. Cercava di dire qualcosa ma pronunciava solo grugniti incomprensibili. Era svenuto, quando si era ripreso si era sentito sballottato, preso di peso e adagiato su un piano rigido, quasi freddo, che tremava, vibrava e si muoveva. Sentiva che lo stavano spingendo, fra rumori e voci, luci come flash che gli accecavano gli occhi, annebbiati dal sangue. Neon bianchi. Odore di disinfettante. Un sogno confuso, fatto di rumori, voci, luci, vista annebbiata…
Lo sedarono e lo spogliarono: su un braccio aveva tatuata la scritta - welcome to hell - con caratteri grossi come carte da gioco. Sul petto lo scontro fra due grandi pugni chiusi, uno contro l’altro, con le vene gonfie e tese, legati da filo spinato, in mezzo la fiamma di un esplosione con sfumature gialle, blu, rosse. Sulla schiena l’opera più imponente: un dipinto-su-uomo di un metro per un metro. Croce celtica tridimensionale al centro e due enormi leoni neri e indaco ai lati, in piedi sulle zampe posteriori, muscoli e tendini tirati, criniera imponente. Lunghe cicatrici sparse un po’ ovunque: sul petto, sul collo, sulle gambe.
Uno che se lo incontri in una strada poco frequentata, ti viene da consegnargli direttamente soldi, orologio e telefonino, … sperando di poterlo poi raccontare agli amici.
Arrivarono i medici mentre l’uomo stava già facendo la TAC. Il chiodo era penetrato nel cervello incredibilmente senza ledere strutture vitali. Questione di millimetri. Un capello più in là e sarebbe morto.
“Non ho mai visto una cosa simile!” disse uno
“Io una volta si, un incidente in un cantiere” disse un altro “però non superò la notte” aggiunse
“Questo è un carcerato, l’hanno portato direttamente da Regina Coeli”
“Avranno cercato di ucciderlo … non mi sembra un incidente”
Medici e infermieri conversavano intorno al Carnera biondo.
“Giusto perché ha una testa come quella di un bue, altrimenti…”
I chirurghi studiavano la TAC: “Vedi, il chiodo ha penetrato la scatola cranica e si è infilato proprio in mezzo ai due emisferi, in una zona ricca di plessi venosi ma sembra non aver provocato danni irreversibili”
“Per come è entrato in profondità l’estrazione diretta con la pinza a cranio chiuso è fuori discussione. Il rischio di emorragia è troppo alto. Dobbiamo aprire”.
Era tutto pronto, il frigorifero umano era già addormentato.
Il tavolo operatorio reggeva ma dovettero inserire due supporti laterali per poter appoggiare anche braccia e spalle del gigante.
I chirurghi praticarono un incisione intorno al chiodo di circa tre centimetri per lato, con una piccola sega elettronica di precisione, poi venne estratto il chiodo grazie ad una pinza abilmente manovrata con un movimento lento e rotatorio dal dottor Stezzari. Contemporaneamente asportarono anche il tassello d’osso come si fa d’estate con le angurie. Per diversi secondi tutta la sala operatoria sembrò trattenere il respiro.
“Cauterizzate tutti i vasi” disse il chirurgo con lo stesso tono fermo delle sue mani. Venne eliminato il pezzo di ferro dal quadrato d’osso e quindi rimesso a posto il tutto.
Le mani e gli arnesi degli uomini in camice si muovevano in modo stupefacente. Le dita scivolavano velocemente fra ossa, cervello e sangue. Sembrava che stessero semplicemente sistemando dei pezzi nel cofano motore di una piccola auto. Ecco qui, un’occhiata al carburatore, una al filtro, un’avvitatina qui, un’altra qua...
“Voilà, come nuovo” disse il neurochirurgo per stemperare la tensione. Il paziente era salvo ma l’intervento era stato tutt’altro che semplice.. La sua equipe a fine intervento partì con l’applauso e non succedeva di frequente, … l’avevano ripreso per il classico pelo.
“Mi chiedo come abbiano potuto fargli questo scherzo, per tenere un bisonte così grosso devono averlo tenuto in sei”
“Forse l’hanno colpito mentre dormiva”
“Però è arrivato con la divisa da giorno” disse un infermiere evidentemente esperto in materia
“Oh, almeno stasera ho qualcosa da raccontare a mia moglie!” disse cinicamente un altro
“Portatelo giù in rianimazione”
Dopo dieci giorni Igor, questo era il nome della montagna umana, si era ristabilito. Era ancora tutto fasciato e debole, piantonato a vista in una stanza dell’ospedale che veniva spesso dedicata ai reclusi ricoverati. Nella stanza c’era anche Alvaro, un delinquente romano che andava per i settant’anni, ricoverato per problemi cardiaci. Igor non aveva cantato, la polizia era convinta che sapesse benissimo chi aveva cercato di ucciderlo ma lui continuava ad affermare di non ricordare nulla.
“Buongiorno gigante” gli disse Alvaro con la voce roca da fumatore
“Ciao” grugnì Igor
“Che t’hanno pijàto pè na parete? Te volevano attaccà ‘n quadro sulla fronte?”
Igor lo guardò senza cambiare espressione e non rispose.
Il vecchio aveva una folta capigliatura, bianca come le sopracciglia, il naso grosso e bitorzoluto, fisico tozzo ma non grasso, nascosto da un pigiama con la giacchetta, azzurro con il bordino bianco. Dopo due giorni i due erano diventati amici. Alvaro gli aveva raccontato tutta la sua vita. Quando era finito dentro le prime volte per piccoli furti: autoradio, portafogli, poi il furto con scasso in una gioielleria, la galera era stata la sua casa, la sua scuola e la sua famiglia. Ne entrava e usciva spesso e volentieri, era un criminale di una volta, di quelli con un codice d’onore. A modo suo era una persona semplice e persino onesta. Poi cinque anni prima in una lite, per difendere sua figlia, aveva ucciso un uomo. Quindi ora sarebbe rimasto dentro per un bel po’.
“E pensare” proseguiva il vecchio “che ormai avevo appeso i ferri del mestiere al chiodo… Oh scusa” scoppiò a ridere “nun volevo fà ‘a battuta!”
Sorrise anche Igor.
La stanza aveva le pareti azzurrine, i letti in tubolari di acciaio che probabilmente avevano pochi anni meno di Alvaro, armadietti e comodini di formica verde e una grande finestra.
“Comunque lo rifarei tutti i giorni. Quel bastardo nun doveva mètte le mani addosso a mi fìja”
“Alvaro” disse Igor senza nemmeno girare la testa, era ancora tutto fasciato e pieno di tubi e flebo.
Il vecchio fece solo un cenno alzando il mento, come per dire – Si, che c’è? –
“Sei un uomo bravo”
“Sono un fregnòne, nella mia vita sò stato più tempo ar gabbio che a casa mia… mò ce s’è messo pure er core a fa er cojòne…”
Si portò istintivamente una mano al petto a controllare che fosse tutto a posto
“A me è successa cosa simile” disse Igor con il suo forte accento dell’est
“Che voi dì?”
“Io sono dentro per rapina armata ma non ho mai ucciso nessuno. Rubato si, da tanti anni. Non credo di saper fare altro. In mio paese facevo combattimenti illegali ma poi sono scappato, non mi piace picchiare, fare male. Troppa violenza.”
“Però c’hai dei tatuaggi che pari un legionario!”
“Me li fece fare il boss, io ero un ragazzo, diceva che così facevo più paura”
“Ma io direi che dovevi fa’ abbastanza paura pure prima” e rise di nuovo.
“Ci hanno preso perché durante rapina mio compagno ha preso ostaggio bambina, minacciava con coltello alla gola. Poteva ucciderla. Gli ho spezzato polso, lui ha cercato di colpirmi con coltello, l’ho colpito, mentre gli altri due pensavano a dividere noi è arrivata la polizia. Uno dei nostri è stato anche ucciso… Un vero casino”
“E sì, … proprio un casino…”
“Ma io lo conosco, non ci avrebbe pensato due volte a sgozzarla come animale…”
“Insomma hai difeso una piccoletta, un tuo compagno è morto e v’hanno arrestato. Mo so cazzi tua! Ho capito perché t’hanno piantato un chiodo ‘n testa. Però ancora me chiedo come cazzo hanno fatto, sei ‘na specie de rinoceronte! … Comunque sai che te dico? Hai fatto bene!”
“Ora me l’hanno giurata, sono italiani, in galera conoscono tante persone. Io sono grosso ma se vengono in venti mi fanno quello che vogliono…”
“E non lo so… Comunque grazie che m’hai detto stè cose. Io sò muto come nà tomba. Nun te preoccupà”
“… Alvaro, c’è un’altra cosa, … il chiodo…”
silenzio
“il chiodo?” lo incalzò l’altro
“me lo sono infilato da solo”
“Cosa?” urlò il vecchio
“Avrebbero cercato di farmi fuori presto. Avevo sentito che spedizione era per la sera. Dovevo uscire per forza. Allora ho tirato fuori chiodo da una panca, l’ho poggiato sulla fronte e ho dato una testata forte al muro…”
“Li mortacci tua!!! Ma tagliate a un piede, fatte male a nà mano, non un chiodo in testa!!! … Eccheccàzzo!”
“Mi volevo solo ferire per andare in ospedale. Una cosa facile ti portano in infermeria di carcere. Chiodo in testa non puoi curare in infermeria… Qua è più difficile che arrivano”
“Ma tu sei pazzo fregato, … e comunque mi sa che sta capocciata l’hai data troppo forte! Li ho sentiti gli infermieri che chiacchieravano. Il chiodo ce l’avevi proprio dentro il cervello. Ti conoscono tutti in ospedale. Sei una specie di leggenda. Diceva il dottore che chiunque altro sarebbe finito al creatore. Diceva che tu c’hai un capoccione esagerato e che hai avuto un culo incredibile… Sei proprio matto” e si battè energicamente l’indice della mano sinistra sulla tempia scuotendo la testa per rafforzare il concetto
“Non avevo scelta, però sì, … capocciata troppo forte… Prossima volta più piano”
“Prossima volta?” disse Alvaro sgranando gli occhi
“Scherzo…” rispose Igor con una risata fioca e debole. Sembrava ridere più con il corpo che con la voce.
In quel preciso momento si sentì un urlo soffocato ed un tonfo. Entrò nella stanza un uomo magro con barba e capelli lunghi, aveva un ghigno marcio di denti gialli. Occhi piccoli e incavati, lo sguardo freddo di un professionista. Fu meno di un istante: alzò la mano destra e la rivolse verso Igor, stringeva nel pugno una pistola con un lungo silenziatore. Il rumeno sbarrò gli occhi, il killer stava per premette il grilletto quando gli piombò in piena faccia una bottiglia di acqua minerale. Il preciso lancio di Alvaro lo prese in pieno. Il proiettile si infilò nel soffitto. L’effervescente naturale da un litro esplose in faccia al killer disegnando tutto intorno un quadro astratto di pezzi di vetro verde e sangue. Igor guardò il vecchio stupito e incredulo.
“Grazie!” balbettò
“Ma te pare!” rise Alvaro
Il gigante si alzò tirandosi dietro tubi, fili, elastici e flebo, che strappò via. L’uomo si stava rialzando, Igor gli piantò un cazzotto in faccia che avrebbe tramortito un bufalo, poi si impadronì della pistola che mise nella cintola dei pantaloni. Si avvicinò ad Alvaro, gli prese la faccia fra le sue manone lo guardò negli occhi e gli sorrise di nuovo:
“Bella mira… Vai via da questa stanza, questo non si rialza subito ma potrebbe esserci qualcun altro…”
“Vai via te, corri. Che a me ce bado io…”
Il rumeno lo abbracciò poi uscì dalla stanza. Vide il poliziotto esanime davanti la porta, forse colpito in testa con il calcio della pistola. Si sincerò che fosse ancora vivo, poi cominciò a correre per i corridoi…
Alvaro era rimasto seduto, si portò la mano al petto, una fitta acuta – il lancio della bottiglia – pensò. Si mise a ridere fra sé:
“Però che tranvata che j'ò dato a stò stronzo!”.
Un’altra fitta, più forte della prima, al petto e al braccio sinistro.
Gli si disegnò sul viso una smorfia di dolore, la bocca tirata in un sorriso stupito, e si accasciò di fianco sul letto.
martedì 1 luglio 2008
L'ALBERO DELLE MORE (di Giuseppe Gatto)
Lei fece sì con un cenno del capo ed un lieve sorriso
“Dai, non ci posso credere! Mi prendi in giro…”
“Ma no! E’ lui!”
“Ma il nostro era … più grosso, più alto. Era enorme! E poi era in mezzo al nulla!”
“Amedeo, avevamo sei anni, ci sembrava enorme! Sono passati più di trent’anni. E’ già un miracolo che sia ancora qui, tutte queste case non c’erano. Ora sembra un bonsai!”
– Il nostro bonsai – penso, e invece dico:
“Un bonsai in mezzo al cemento”
“Arrivavamo in bicicletta, quasi tutti i pomeriggi…” riprende lei “era il nostro rifugio, salivamo su e mangiavamo tutte le more che riuscivamo a raggiungere...”
“...troppo buone! Bianche, dolcissime…”
Continuiamo a parlare e a guardare quello che era il nostro mondo. Non ci vediamo da allora. Giovanna ride, con quel suo sorriso infinito che mi metteva soggezione e mi faceva arrossire già a sei anni. Eravamo soltanto due bambini eppure io ne ero perdutamente innamorato, come solo un bambino sa esserlo. Ricordavo perfettamente la luce e l’allegria dei suoi grandi occhi verdi, le fossette sulle sue guance e quel suo modo particolare di ridere. Avevo sette anni quando la mia famiglia cambiò mare e non ci vedemmo più. Oggi sono passato per caso da queste parti e non ho potuto fare a meno di cercarla. E’ tardo pomeriggio ma il caldo è comunque da estate inoltrata. Nell’aria c’è un bell’odore di salsedine e di pietre calde. La sua casa era sempre lì, inclusi il vecchio cancello verde ed il muretto bianco. Sono rimasto immobile per dieci minuti, forse più. Poi ho preso coraggio e l’ho chiamata. Lei è uscita, con il pancione e due marmocchi stupendi attaccati alle gambe. – E’ sempre la stessa – ho pensato – il naso un po’ più importante, qualche ruga, un’aria meno spensierata, ma il sorriso dei suoi occhi e le fossette sulle guance sono proprio lì dove li avevo lasciati –
Giovanna mi ha scrutato per qualche secondo prima di inarcare le sopracciglia, esclamare il mio nome e scoppiare in un sorriso totale. Dopo il caffè di rito siamo usciti a fare una passeggiata, i suoi piccoli sono rimasti in giardino con la nonna.
“Nonna, chi è quel signore?”
“E’ Amedeo, un amichetto della mamma”
Ho notato lo sguardo furbo del maschietto che aggrottava la fronte e probabilmente faticava a catalogarmi nella categoria amichetti, viste le mie dimensioni.
Come guidati da un navigatore satellitare siamo arrivati all’albero delle more.
“Restavamo qui a giocare per ore” continuo guardando il punto dove il tronco si apre come una mano.
“Sì, quest’albero era un castello, un aereo, una nave spaziale...”
“Mah, … io soprattutto venivo per mangiare le more! E poi arrampicarmi sui rami mi faceva sentire molto Tarzan!”
Ride. Mi dà una spinta sulla spalla. Come è bella.
“Giovanna, ma tu lo avevi capito che ero innamorato di te?”
L’ho pensato a bruciapelo ma le mie labbra non si sono mosse di un millimetro.
“Come mai sei scomparso?” dice “Potevi passare a salutarci ogni tanto!”
“Il giorno che dovevo partire venni a salutarti, arrivai vicino al fiume e ti vidi giocare e scherzare con Giulio. Ero a pochi metri da voi quando tu lo hai abbracciato, quasi di scatto, e gli hai dato un lungo bacio sulla guancia, con gli occhi chiusi, lo ricordo bene. Sentii un pugno qui, alla bocca dello stomaco, una vampata di calore in viso e scappai via”
Di nuovo, le labbra non si sono mosse. Poi dico:
“Boh, eravamo bambini…” e alzo le spalle “posso?” lei fa cenno di sì e le sfioro la pancia con la mano. Da quando sono diventato anche io papà, le pance mi fanno una tenerezza infinita.
Mi prende la mano fra le sue: “mi ha fatto piacere rivederti. Ma ora devo scappare. Giurami che ripassi, magari mangiamo un boccone assieme e ci facciamo un bagno, ok?”
“Si certo. Devo andare anche io, ciao Giovanna”
“Ciao”
Il tempo si ferma. Non sento più uccellini e cicale, né il caldo sulla pelle, né la risacca in lontananza. Persino l'aria mi sembra più fredda e rarefatta.
Con qualche anno di ritardo.
venerdì 27 giugno 2008
I RACCONTI DI KARIN
mercoledì 21 maggio 2008
MILENA (di Giuseppe Gatto)
“Non c’èee nieeen-teee, che siaaaa per seeem-preeee, è troooppo ormai che staiii cosi male, il tuo diploma è un fallimento è una laurea per reagiiireeee”.
La voce roca e sensuale di Manuel Agnelli si diffonde dallo stereo con il volume a palla. Sono le tre di notte. I vicini non dicono nulla. Forse si sono rassegnati. Oppure la casa è insonorizzata davvero bene.
Fuori piove. Sono seduto in poltrona, in mutande e maglietta, con lo sguardo concentratissimo sul nulla. Il Jack Daniels è finito da un pezzo ma stringo ancora la bottiglia nella mano destra.
Quasi fosse la boa che mi tiene a galla.
Sento musica e pioggia entrambe in versione molto ovattata. La punta di un trapano mi passa le tempie da parte a parte. Devo aver bevuto troppo.
Ormai sono passate diverse ore che Milena è uscita da quella porta, sbattendosela forte alle spalle e trascinando una grossa valigia. Da un momento all’altro ricompare e facciamo pace…
- “Sei sempre il solito stronzo, non te ne frega nulla di me, non te ne è mai fregato!”
- “ma amore, cosa stai dicendo? Cosa ho fatto?”
- “lo sai benissimo cosa hai fatto” stava urlando, come al solito,
- “calmati, prova a spiegarmelo, ti giuro che non ci sto capendo nulla. E smettila di urlare”
- “urlo quando mi pare cazzo, URLO QUANDO MI PARE VABBENE!”
Urlava veramente come e quando gli pareva. Milena era bravissima ad urlare. Una professionista. Quando le cose andavano bene era la persona migliore che conoscessi, dolce, sorridente, un angelo con lo sguardo da sirena… Bella, radiosa, di un fascino etereo, quasi evanescente. Ma quando si arrabbiava sembrava posseduta dal demonio. La bava alla bocca, gli occhi iniettati di sangue, lo sguardo di una tigre ferita… e cominciava ad urlare, urlare, urlare.
Dio che mal di testa. Devo ricordarmi di comprare un altro Jack. Cerco le ultime gocce ma la bottiglia a base quadrata è completamente secca.
Di solito sta via un’ora o due, poi smaltisce la crisi isterica e ritorna. Ci abbracciamo. A volte facciamo l’amore senza dire nulla. A volte lo facciamo piangendo.
- “Non lo capisci che non mi sento amata, stronzo! Che vorrei di più da te. Che ti vorrei diverso!”
Avevo smesso di risponderle. Non ho più fiato, non ho più parole. Non ho più energia. Sono ormai quasi due anni che mi ripete le stesse cose come un disco rotto. Però la valigia non l’aveva mai fatta. Ma lo so. Poi le passa. Fra un po’ torna.
- “Basta! Sei un pezzo di merda, mi fai schifo, MI FAI SCHIIIFOOOO!”
- “Ti prego, calmati, sei fuori di te”
- “sono CALMISSIMA” urlava. Quando arrivava a quello stadio di urla e insulti non era calma proprio per niente!
Ha buttato in terra un vaso, che incredibilmente non si è rotto! Poi si è chiusa in camera. Ne è uscita piangendo dopo venti minuti con la valigia. Un ultimo vaffanculo urlatomi in faccia a pieni polmoni e poi sbam è sparita dietro la porta.
Ma come siamo potuti arrivare a questo?
Guardo attraverso la finestra: le gocce di pioggia, il buio, qualche luce nella collina di fronte e mi addormento.
Alle sei di mattina ho un sussulto. La poltrona è scomodissima. Dio che male al collo. Ho dormito qualche ora e incredibilmente stringo ancora a me come un bambino in grembo la bottiglia vuota. La guardo speranzoso ma è ancora vuota. Fuori non ha smesso di piovere. Mi guardo intorno sperando di vederla ma in casa non c’è nessuno, oltre a me. Mi viene da pisciare. Vado in bagno, passando vicino al tavolo raccolgo il vaso. Lo tocco con le nocche del pugno ton – ton… ecco perché non si è rotto, è di metallo, avrei giurato fosse di ceramica, ... mi sembrava strano!
Espleto i bisogni fisiologici, ho un bruciore allo stomaco che sembra una fissione nucleare. Il mio sguardo si sofferma sullo specchio. Non sono un bello spettacolo, eppure a Milena piaccio, che gusti... è che non gli piaccio più dentro. Vuole di più, mi vuole diverso. Dovrei decidermi a crescere… Ma se solo capissi per davvero cosa diavolo vuole. Crescere, cambiare, diverso. Si, ma cambiare cosa? Diverso come?
Altra stilettata di acido alla bocca dello stomaco. Come un pugno liquido.
Devo aver bevuto proprio troppo. Devo mangiare qualcosa. E anche comprare un’altra bottiglia di distillato di cereali invecchiato in botte. Cerco le calze sul pavimento, prendo la camicia sul divano, test olfattivo discreto, la indosso. Il pantalone dove l’ho messo? Ah, eccolo. Faccio un salto giù al bar. Guardo l’orologio al muro, sono passate da poco le sette.
Fuori c’è un odore di strada e prato bagnato, il profumo di quando smette di piovere. Infatti ha smesso e sta tornando il sereno . Magari è un buon segno. Bello quest’odore, tiro dentro l’aria dal naso con un profondo respiro, chiudo gli occhi. Li riapro che mi gira la testa, ho inspirato troppo ossigeno tutto insieme!
- “Ciao Marco, Buongiorno. Ti sei alzato presto stamattina!”
- “Si, certo, ora vado anche a fare un po’ di footing. … Fammi un cappuccio, và… e dammi anche due brioche, chissà mi passa stò bruciore. Ah, … e non dire stronzate di prima mattina che lo sai che non riesco a reagire. Ce l’hai una bottiglia di Jack Daniels?”
- “quante ne vuoi”
- “per ora ne basta una…”
Compro anche il quotidiano e torno su nel nido.
Milena non è tornata.
Vinco l’orgoglio e provo a chiamarla, non è mai stata via così a lungo. Il telefono è staccato. Riprovo. Niente.
Apro la bottiglia e mi butto in gola un’abbondante sorsata che mi infiamma il petto. Sollievo.
Comincia a mancarmi. Più passa la sbornia e più mi manca. Il suo corpo, il suo profumo, la sua voce, l’angolo del suo viso, fra il naso e la fronte, quando mi si appoggia sul petto e nell’incavo del mio collo, la sua posizione preferita per dormire.
Il sole compare all’improvviso, fortissimo, sembra esplodere. Una lama di luce entra nel soggiorno. Dio la testa. Devo dormire, vado in camera, il letto è ancora sfatto è il suo odore è ancora lì che galleggia a mezz’aria. Mentre alzo le lenzuola e mi sfilo i pantaloni vedo sul comodino il foglio piegato. Una lettera. Mi ha scritto una lettera! E’ piegata in due, la prendo e la apro.
Un brivido ghiacciato mi entra da non so dove alla base della nuca, scende giù per la schiena e mi piega le gambe, come una frustata. Cado seduto sul bordo del letto e rileggo di nuovo quelle poche righe.
E piango. Finalmente piango. Con la testa fra le mani. Inebetito.
Milena non tornerà più.
di Giuseppe Gatto